Ciao a tutt*
propongo agli interessati un brevissimo articolo personale in merito al libro “Anarchia come organizzazione” di Colin Ward. L’anarchico pragmatista britannico morto pochi mesi fa. Lo scritto ha un certo “taglio”, poiché era stato pensato per una breve relazione da presentare in un corso universitario.
Si tratta cioè di una sintesi del libro corredata da qualche considerazione personale.
Ad ogni modo, consiglio la lettura per intero dell’opera di Ward, che è veramente interessante.
Linguaggio semplice e chiaro, con prospettive e idee di rinnovamento belle e radicali.
Ecco qui il manoscritto, per chi ha la forza e voglia di inoltrarcisi dentro.
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Per comprendere appieno il significato più profondo di questo testo, è doverosa una breve precisazione. Sia di carattere storiografico sia in merito al pensiero anarchico in generale. Anarchia come organizzazione infatti, è sì un classico del pensiero anarchico e libertario, ma è stato scritto nel 1973 da un autore che rappresenta solo una delle possibili declinazioni teoriche e pratiche dell’anarchismo inteso come filosofia sociale, ancor prima che come dottrina politica. E’ quindi necessario contestualizzarlo ed essere consapevoli della parzialità di quest’ opera. Ward fa parte di quel filone definibile come pragmatista. Il suo obiettivo preciso cioè, non è tanto quello di analizzare i principi e le idee anarchiche in un senso metafisico o filosofico, ma piuttosto di dimostrare come esse vivano nel quotidiano, nella concretezza del reale, sebbene sepolte da strutture politico-sociali e comportamentali che impediscono di capirne l’esistenza ed efficacia.
Le riflessioni dell’autore non a caso, attraversano ambiti molto eterogenei e differenti l’uno dall’altro. Dall’urbanistica, al sistema educativo, passando per le carceri e la famiglia, fino alle dinamiche di lotta dei lavoratori, sono molti i momenti-spazi in cui egli ravvisa la presenza dei principi e concetti tipici del pensiero anarchico e libertario: decentramento, federalismo, cooperazione, autogestione e antiautoritarismo in primis.
In termini di analisi dei contenuti, il libro si può dunque sommariamente suddividere così: A) Proposte per un’organizzazione sociale antiautoritaria e antigerarchica, in cui libertà ed eguaglianza abbiano un ruolo centrale; B) Esempi concreti dell’esistenza di dinamiche, principi e azioni anarchiche nella storia e nella società; C) Funzione,efficacia e sviluppo di queste idee.
Tra i vari argomenti affrontati nell’opera, un ruolo centrale spetta alla critica dello Stato, che è considerato il massimo esempio di autoritarismo e violenza. Esso cioè, attraverso le sue istituzioni e poteri, come ad esempio la scuola, le carceri e le forze armate, impone dall’alto verso il basso le decisioni, limitando o annullando la libertà delle persone. E ciò avviene sulla base della delega di potere che va dall’individuo allo stato. Un trasferimento di potere, questo, che si trasforma successivamente in legittimità e possibilità di coazione ai danni dei cittadini, e che ha nella guerra un esempio lampante. E’dunque osteggiata la concezione statalista, impregnata di imposizioni e gerarchie che l’anarchismo si propone di distruggere. L’organizzazione sociale per gli anarchici, può e deve dunque avvenire senza l’intervento di autorità alcuna. In tutti gli ambiti della vita umana. Deve essere organizzata e gestita dagli individui attraverso la libera associazione e l’azione diretta. Si ha quindi un insieme di proposte che convergono verso modelli sociali differenti da quelli statali-centralistici, che abbiano cioè un maggiore grado di libertà ed uguaglianza. E che, soprattutto, già operano nella società. In questo passaggio da una società piramidale ad una reticolare, non si può che seguire il principio federativo. Che fa del decentramento e della diversità intesa come pluralismo, la sua forza.
Le immagini usate dall’autore per rendere l’idea di questo tipo di futura società orizzontale e antiautoritaria, è quella dei circuiti neuronali e cibernetici, in cui non esiste un vero e proprio centro, ma tanti piccoli snodi che si sostengono vicendevolmente. Ward fa poi l’esempio delle reti ferroviarie svizzere e dei servizi postali internazionali, in cui i soggetti stabiliscono una sorta di contratto sociale esente d’autorità, che semplicemente coordina il funzionamento di questi servizi, più che governarlo. L’idea è semplice: le persone si uniscono sulla base dei propri interessi e volontà, creando gruppi di varia natura: cooperative di lavoratori, associazioni di cura e assistenza, e quant’altro, e si disuniscono quando l’interesse viene meno. Così sarebbe nata, secondo quanto emerge dal libro, anche l’assistenza sociale in Inghilterra: i poveri si autotassavano per raggiungere un obiettivo comune, quello di garantire a tutti la sicurezza di potersi curare in caso di bisogno.
Un sistema organizzativo che aveva raggiunto un ordine naturale che nessun’autorità esterna avrebbe saputo generare (teoria dell’ordine spontaneo). Proprio perché auto diretto e gestito autonomamente dai soggetti interessati.
Ma poi la situazione mutò negli anni successivi. In Inghilterra e altrove, l’assistenza sociale e molti altri servizi che prima erano autogestiti volontariamente, vennero istituzionalizzati e poi nazionalizzati. E anche in merito alle struttura delle istituzioni, oltre che della logica che le incarna, lo sguardo anarchico è estremamente critico. Perché è sorto un dubbio atroce: si è davvero sicuri che questi organi sociali contribuiscano a risolvere i problemi per cui sono nati, o piuttosto li perpetuano? Gli anarchici propendono per questa seconda ipotesi. Il testo fa numerosi esempi, ma il più calzante per spiegare la (presunta) malsana logica operativa delle istituzioni, pare essere quello del sistema carcerario. Ward, riprendendo altri autori tra cui Kropotkin, sostiene che invece di aiutare a risolvere il fenomeno della criminalità e dei reati, il carcere non faccia che peggiorare la condizione di chi ci entra. In essa, non c’è redenzione per l’uomo, ma solo punizione. I carcerati introiettano l’idea per cui essi sono così e mai potranno cambiare. Nelle istituzioni dunque, il grado di gerarchia e violenza derivante dall’autorità, andrebbe di pari passo con l’interesse a conservare lo status quo che da ad esse potere. Ciò avviene anche in merito al sistema educativo, seppur con alcune differenze. Per l’autore, il prototipo della scuola esisteva ben prima che lo stato stabilisse l’educazione nazionale obbligatoria. Ma l’aspetto più interessante nella lotta per l’educazione popolare, sospesa tra prospettive centraliste-stataliste e libertarie-decentraliste, è la radicalità della proposta anarchica. Di cui il motto “descolarizzazione” è la sintesi estrema. Gli anarchici vogliono che le scuole e le università diventino accademie popolari gratuite, in cui tutti insegnino a tutti, in cui gli individui decidano ciò di cui parlare, basate sulla partecipazione volontaria. Anche se certi pensatori, tra cui Godwin, si spingono addirittura più in là, con tesi che sostengono un’ “istruzione incidentale”: un apprendimento extrascolastico casuale, ottenuto attraverso il lavoro, il gioco, e altre situazioni interessanti. La conoscenza insomma, come azione performativa autogestita e libera.
Affrontiamo ora uno delle questioni centrali del testo: il lavoro. “Senza padroni” è il famoso slogan che racchiude in sé i concetti teorici portanti del pensiero anarchico in merito all’organizzazione del lavoro. Ma cosa si cela dietro queste due parole? Uno degli elementi politici che emerge è indubbiamente quello dell’autogestione. Sia dei rapporti produttivi sia della proprietà in sé. L’intento storico del movimento anarchico è stato quello di riuscire a prendere il controllo delle fabbriche (e oggi si potrebbe estendere agli altri luoghi di produzione, sia essa anche di tipo intellettuale/di servizi) per renderlo collettivo. Fare in modo cioè che i lavoratori lo gestissero autonomamente, per evitare tutti quei soprusi e quelle ingiustizie tipici dei sistemi lavorativi improntati su modelli gerarchici e capitalistici. Spesso questo sogno non si avverò. Tuttavia Ward evidenzia come, per rispondere ad essi, furono create cooperative e nuove modalità collettiviste di organizzazione del lavoro che hanno saputo proporre valide alternative. Ad esempio la pratica del “sistema a squadre” , che concentra il controllo sulle merci e non sulle persone. Essa permetteva agli operai di una fabbrica britannica di autogestirsi quasi completamente, di avere un’ottima produttività e alti salari, e di mettersi così al riparo dallo sfruttamento operato ai loro danni dai dirigenti. E sistemi simili, in cui all’autogestione si collegano processi di decisione partecipata e collaborazione, rispondono molto di più di altri alle aspettative degli anarchici in merito al lavoro. Che deve inoltre assumere un valore educativo e di responsabilizzazione per gli operai, stimolando la loro creatività, con il fine di evitare una pericolosa “condizione subumana di deresponsabilizzazione intellettuale”[1].
Ma è senza dubbio nel modo di intendere ed interpretare la legge, la criminalità e la giustizia, che il pensiero anarchico e libertario può apparire ingiustamente infantile o semplicistico. La legge appare ad ogni anarchico come l’antipodo della libertà, in quanto è espressione dello stato e della sua prevaricazione sull’individuo e la popolazione. Per questo motivo viene rifiutata il più possibile come mezzo di risoluzione dei conflitti e di gestione della vita pubblica. C’è insomma, la forte volontà di opporsi ad ogni entità che ritenga di poter giudicare e reprimere attraverso la violenza, eventuali comportamenti criminali.
Come organizzare dunque la società senza l’ausilio di autorità poliziesche e leggi? Attraverso la gestione sociale dell’ordine. Una prospettiva ideale per cui le persone compartecipano tutte insieme alla gestione dell’ordine pubblico e all’individuazione e punizione di comportamenti ritenuti antisociali. In questo secondo caso, attraverso una serie numerosa di meccanismi particolari. Ad esempio, affidando il controllo sociale del territorio a chi ci vive, oppure utilizzando la disapprovazione della comunità nei confronti di chi sbaglia, come fonte di inibizione di azioni criminali. Sebbene queste e altre pratiche simili possono talvolta apparire ed essere potenzialmente deboli, gli anarchici le ritengono ben migliori rispetto a quelle autoritarie. Anche in una logica di responsabilizzazione della comunità nei confronti di sé stessa. Infatti, se la popolazione non delega la sua sicurezza a istituzioni gerarchiche, deve necessariamente farsene carico. Ed inizia così quel percorso di crescita di partecipazione collettiva che è fondante nei modelli di gestione sociale antiautoritaria della giustizia e dell’ordine pubblico.
Una delle prospettive più rosee a cui si potrebbe giungere, seguendo il concetto espresso poc’anzi, è quella che Ward riprende da Richard Sennet: la teoria della conflittualità nonviolenta. Paradigma in cui all’alta intensità del mutamento sociale che scaturisce da ogni conflitto (sia esso interpersonale piuttosto che comunitario), corrisponde un ancor più alto grado di responsabilizzazione e consapevolezza delle persone che vi partecipano e lo autogestiscono. Senza interferente di alcuna autorità. Si svilupperebbe così una società in grado di fare a meno di strumenti e logiche repressive- liberticide.
Per ovvie ragioni di spazio non ho potuto approfondire nel dettaglio le tematiche e gli esempi presentati nel libro, cercando di scegliere quelli che mi sembravano più pregnanti. In questa personale rielaborazione organica del testo, spero comunque di aver messo in luce l’intento dell’autore: dimostrare che l’anarchia è una prospettiva di organizzazione sociale, politica ed economica radicalmente alternativa e concretamente presente nelle pieghe della società, non un’ utopia romantica irrealizzabile. Preso per vero ciò, dovremo anche tornare a parlare di anarchia e anarchismo senza pregiudizi o stigma di sorta, confutando quegli stereotipi negativi che spesso gli vengono associati. Non solo dall’opinione pubblica, ma anche dal mondo accademico.
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