Emergenza, terrore, nuove abitudini..la speranza

Forse comincio pure io a diventare una di quei rompicoglioni che “si stava meglio ai tempi nostri”. Basta un virus a sconvolgere la nostra vita e già sembriamo catapultati avanti di un secolo e il 2019 è “un dolce ricordo di gioventù”. Eppure se lo raccontassi tra dieci anni potrei davvero dire “nel 2019 era diverso il rapporto con le malattie”: forse perché con l’età tendiamo a ricordarci delle cose passate e dimenticare quelle recenti, ed io mi dimenticherei che il 2020 è solo l’anno successivo al 2019 e fa ancora più che mai parte dei “miei tempi” e che il 2019 in realtà non è stato affatto un anno rose e fiori.

1. Terrore

Prima del 2020, la febbre rappresentava principalmente una seccatura per chi non poteva andare a lavoro, qualcosa di più per chi un’assenza dal posto di lavoro significava non avere entrate economiche fondamentali o peggio perdere il lavoro, e la felicità per un buon numero di studenti che potevano assentarsi da scuola.

Col Covid 19 la paura di ammalarsi si è trasformata in paura di non guarire più. Pur essendo una malattia che molti contraggono senza sintomi e guariscono da soli, a comandare è la paura dei numeri di malati in terapia intensiva e di morti che vengono elencati ogni sera in televisione, alla radio, su internet.

Col Covid 19, si è giustificati a restare a casa per evitare di ammalarsi, anzi, molte persone lavorano ormai in smart working. Naturalmente ci sono lavori che non si possono fare via internet, (tipo tagliare carote in un magazzino della verdura) perciò chi non può permetterselo, ha diritto a una cassa integrazione o a una disoccupazione (che non arriva mai) o è costretto a recarsi al lavoro con misure di sicurezza apparenti e datori di lavoro che con la scusa della crisi, giustificano tranquillamente lo sfruttamento a cui devono sottoporti per evitare il licenziamento.

Eppure molti non ci badano, perché avere ancora un lavoro è una fortuna e ciò che conta davvero è non ammalarsi .

https://coronavirusinfo.altervista.org/le-regole-della-corretta-igiene-respiratoria-per-prevenire-il-coronavirus/

Un colpo di tosse può significare dover fare un test, di conseguenza una quarantena per sé ed eventuali colleghi di lavoro o compagni di scuola (per i ragazzini che ogni giorno arrivano in classe terrorizzati da ciò che potrebbe succedere in una singola giornata), significa non poter vedere un medico finché le condizioni non richiedono l’ospedalizzazione, e quando finalmente si accorgono di te perché la tua condizione è peggiorata, finisci in un ospedale con il respiratore e devi sperare di sopravvivere.

Perciò è vietato starnutire, soffiarsi il naso continuamente, avere i brividi, cioè cose che succedevano tutti gli anni tra l’autunno e la primavera, quando scuole e uffici venivano decimati dall’assenza di massa di studenti e lavoratori e che ognuno curava con i propri rimedi più o meno casalinghi. È vietata la febbre che è la reazione naturale del corpo alla malattia e ti porta alla guarigione. E non è vietato solo per te. È vietato perché sono gli altri a rischiare. Se sei malato, non sei solo vulnerabile, sei colpevole di mettere a repentaglio la salute altrui, soprattutto di chi è più a rischio di te. Quindi naturalmente a parte il lavoro e poche cose “essenziali” non devi assolutamente uscire. E se non te ne importa niente ed esci lo stesso per bisogno o per volontà sei un criminale.

Perché quei numeri di positivi e di morti buttati lì senza basi né confronto alcuno, come se finora la gente non fosse mai morta prima, quell’improvvisa riscoperta del fatto che ci sono persone più deboli di altre che vanno senza dubbio protette dalle malattie di ogni genere, fanno di questa malattia una malattia totalmente diversa da tutte quelle che l’umanità ha affrontato finora, e di conseguenza chi è sano e vuole godersi la sua salute è un egoista e irresponsabile. Quei numeri hanno fatto tornare a galla falsi miti come quello dell’untore ai tempi della peste, quando davvero i morti non si contavano e tonnellate di corpi venivano gettati nelle fosse comuni senza degna sepoltura né funerali. In un tempo in cui la scienza fa da padrona e l’informazione è accessibile a tutt*, si è tornati a una mentalità da Medioevo. E la scienza ufficiale anziché rassicurare, con la propria incertezza continua a incutere terrore, si è fusa con questa mentalità ed è difficile capire ciò che è giusto, e quando si deve riflettere con la propria testa.

Ogni cosa detta dalla scienza è verità assoluta, ogni esperto va ascoltato, nessuno verifica di che tipo di esperto si tratti, quali dati abbia per le mani, di cosa si occupi, o quanto meno se la fonte dell’informazione ricevuta sia attendibile (va detto che molte affermazioni di scienziati sono falsate o riportate parzialmente). E i comportamenti derivati dall’accettazione di queste verità, molto spesso non comprese nemmeno fino in fondo, possono avere conseguenze terribili.

2. Malattia comune o diversa?

Ma cos’ha di diverso questa malattia rispetto ad altre? È molto contagiosa, d’accordo, è più pericolosa di una febbre, per lo meno chi la prende fa più fatica a uscirne, va bene. Ma è un virus. Della stessa identica famiglia dei virus dell’influenza. La corona non è altro che un involucro di proteine che avvolge l’RNA, rendendolo più resistente di altri tipi di virus. I sintomi sono abbastanza simili a quelli dell’influenza. È stato riconosciuto ufficialmente che ha un tasso di mortalità molto basso, però il problema che è contagioso. Quanto più contagioso di una qualsiasi influenza che ogni anno lascia a casa migliaia di persone? Quanto rispetto alla varicella, malattia per la quale un bambino veniva costretto in casa 15 giorni, ma non per questo anche i suoi compagni finivano in quarantena? Anzi, in passato, in Africa e nel Sud Italia, si usava portare i bambini nella casa di uno che aveva contratto la varicella e questo funzionava meglio del vaccino. Tutti i bambini la contraevano subito e ne erano protetti. E così anche chi aveva problemi alle difese immunitarie non correva il rischio di prenderla.

Per il Covid 19 non funziona nessuna teoria messa in atto finora per altri virus. Perché? Al momento si è sentito sul coronavirus tutto e il contrario di tutto, perché ogni suddetto esperto dice una cosa diversa: che ha lo stesso andamento del virus della spagnola, che da problemi al cuore, che è pericoloso per i polmoni (che poi dato che polmoni e cuore sono collegati in realtà potrebbe creare problemi a entrambi), che si è modificato più volte durante la pandemia, che è arrivato dai pipistrelli e dai serpenti che i cinesi hanno il vizio di mangiare, che sopravvive sulle superfici di metallo e di plastica e pare che addirittura si espanda tramite le correnti marine e aeree.

Prassonisi, Rodi, Agosto 2020, foto di Dafne Rossi

Avete notato che alcune verità assolute, sono sparite nel corso del tempo? Ora non prendiamo più in giro i Cinesi per la loro alimentazione, anche perché pare che il virus per loro non sia più un problema. Anzi a dire il vero per loro non lo è stato più dal momento in cui è diventato un problema europeo. (Il perché non mi interessa, non scrivo per raccontare quello che “non ci viene detto”, ma semplicemente per interrogarmi su quello che è di pubblico dominio e per qualche motivo viene sempre omesso.) Ora non abbiamo più il terrore di toccare qualsiasi superficie. Ammesso che sia vero che il virus sopravvive sulla plastica,  abbiamo capito che basta disinfettare le superfici dato che il motivo per cui sopravvive e` che ci puo` essere ad esempio qualche traccia di cibo con la nostra saliva sopra o una forchetta usata lasciata li` per errore. In quanto alle correnti, se il Covid sopravvivesse verrebbe a mancare la definizione base di virus. È un organismo al limite della vita, che ha bisogno di DNA e nello specifico DNA umano per riprodursi. Non è un batterio. Non vive nell’aria. Riguardo ai sintomi, qualsiasi febbre causa difficoltà respiratorie. Ed è normale che se uno ha già problemi in questo senso, il coronavirus non lo aiuta. Dai polmoni al cuore purtroppo è un attimo. Ora, tutte queste informazioni, vere o false che siano sono sicuramente frutto del fatto che il virus non si conosce ancora bene. Allora domanda: come si fa ad avere un vaccino per un virus che non si conosce ancora bene? Risposta, data dai più infervorati sostenitori dei vaccini: “Veramente il virus è già stato sequenziato a gennaio.” Altra domanda, allora sul virus si conosce più di quanto non si creda, dunque perché tenere la gente per mesi in stato di confusione e terrore?

Fra l’altro tra le varie cose che abbiamo sentito, ci sono anche medici che affermano non soltanto di aver visitato i propri pazienti di persona e soprattutto in tempo utile a evitare il peggio, nonostante il divieto del Ministero della Salute di fare una visita di presenza senza adeguate protezioni (protezioni che sono state disponibili solo dopo un mese dall’inizio della pandemia), ma di aver anche continuato a curare i propri pazienti come avevano sempre fatto, invece di lasciarli a casa ad aspettare le decisioni dell’Asl e i risultati dei tamponi. Tali medici sostengono che nessuno dei loro pazienti ha avuto complicazioni.

E noi che possiamo fare? Potremmo cercare di migliorare la qualità dell’aria che respiriamo. Stare più tempo all’aperto, e lontani dalle città. Evitare di rinchiuderci in casa e intossicarsi di sigarette o di andare al lavoro in macchina per non prendere gli autobus e infilarsi nel buco nero del traffico mattutino. Oppure potremmo decidere di cambiare alimentazione, anziché mangiare gli stessi maiali e gli stessi polli alimentati ad ormoni provenienti da chissà dove e che causano e hanno causato la modificazione e la diffusione di molti virus prima di questo. Debelleremmo automaticamente il virus? No, ma di solito la prima cosa da fare per sventare una minaccia che non si conosce, è analizzarne le cause.

E invece no. Imperterriti. Ascoltiamo solo il parere degli esperti (che poi sono gli esperti che ci consiglia la televisione) e aspettiamo con ansia il vaccino che ci salverà tutti.

Si dice anche che ora il virus si sia ulteriormente modificato e non sia più virulento come a febbraio. Se così è, allora potrebbe voler dire che stiamo raggiungendo la famosa “immunità di gregge”, altra parola dimenticata nel tempo. Allora forse, e risottolineo forse, il vaccino a questo punto non ci serve più?

3. Resto del mondo

Un’altra ragione per cui crediamo che questa situazione sia senza uscita è che dall’Italia guardiamo al resto del mondo e questo non sta sicuramente messo meglio. Vero. Ma bisogna dire che quando si vogliono avere informazioni sugli altri paesi è meglio fuggire i giornali italiani. Per esempio: abbiamo bersagliato la Germania perché avrebbe “falsato il numero dei morti” e perché il virus sarebbe arrivato proprio dalla Germania. Entrambe le notizie sono false. Il numero di positivi e di morti in Germania si basa sullo stesso principio che in Italia, dipende dai test che si fanno, test che sono affidabili entro una certa statistica, e il virus non è arrivato dalla Germania, ma dritto dritto dalla Cina.

Si dice anche che negli altri paesi europei la gente obbedisce alle misure di sicurezza, non discute gli ordini, etc… Non è vero. In Germania la gente esce e si incontra come può, mangia seduta alle panchine e mette la mascherina nei luoghi chiusi, mentre le usa per strada solo quando le strade sono particolarmente affollate. In Germania la gente protesta continuamente, tanto che nemmeno il primo lockdown sono riusciti a farlo totale, ed ancora ora la Merkel deve vincere le resistenze dei governi locali e della gente comune per inasprire le regole.

Berlino, ottobre 2020, foto di Dafne Rossi

Sarà che la Germania ha un migliore sistema sanitario, e che una volta che un cittadino ha l’assicurazione pagata dal datore di lavoro ha diritto a un’assistenza completa e totale, sarà che per i Tedeschi salute non significa soltanto prendere una pillola contro il mal di gola, ma anche aver cura del proprio corpo, fare sport, attività fisica e ricreativa, stare all’aria aperta, nei parchi, andare in bicicletta, mangiare vitamine e fare ricorso a tutti quei rimedi naturali che una volta, forse per povertà o perché ancora le pillole non erano state scoperte, utilizzavamo anche noi. Vuoi perché i Tedeschi sono abituati a stare forse un po’ meglio di noi dal punto di vista sociale e rischiare di perdere i loro diritti non gli sta bene. In Italia siamo già troppo rassegnati al fatto che le cose vadano male da una vita?

Ma voglio parlare anche di un altro paese che conosco bene, la Grecia. La Grecia ha seguito le misure di sicurezza dell’Italia, non appena è arrivato l’allarme. Essendo un paese con un sistema sanitario anche peggiore di quello italiano dal punto di vista dell’organizzazione, è corsa subito ai ripari. Ma con l’arrivo dell’estate non ha potuto fare a meno di accogliere migliaia di turisti. Diciamo che non c’era scelta: o il Covid o la morte economica. Alla fine ha optato per la prima soluzione e ha accolto entro i suoi confini tutti gli Italiani del Nord Italia che maggiormente hanno risentito della pandemia eppure hanno voluto lo stesso farsi le vacanze.

Sulle isole non è cambiato molto. Né prima, né durante, né dopo la quarantena e nemmeno dopo l’estate. Se poi si va nei paesini più remoti dove anche i turisti ancora non arrivano in massa, vi posso dire che la gente non si è nemmeno accorta che c’è stata una pandemia, se non fosse stato per le restrizioni che sono comunque state imposte a ristoranti e bar già di per vuoti. Perché va detto che le restrizioni messe in atto in estate consistevano nel chiudere i locali dopo la mezzanotte: a quell’ora infatti l’incanto finiva, Cenerentola ritornava vestita di stracci e il Coronavirus agiva indisturbato.

Apollakia, Rodos, agosto 2020 foto di Dafne Rossi

In compenso ci sono stati luoghi che non hanno subito le restrizioni perché considerati posti dove la gente “non va per divertirsi”. Come Symi, una minuscola isola del Dodecanneso agli estremi confini orientali dell’Egeo. Ora, quest’isola oltre al fascino delle sue spiagge, le sue casette colorate che si affacciano sul porto naturale, i suoi ristoranti caratteristici e i locali notturni, ha anche una particolarità: vi sorge una chiesa dedicata all’arcangelo Michele, meta ogni anno di turisti e dei Greci stessi disposti a fare file lunghissime per fare una preghiera e baciare la sacra icona. Tutto ciò per dire che come ogni anno, questa piccola isola non costretta a osservare particolari restrizioni, si è ritrovata invasa da folle oceaniche. Anche così non è cambiato molto.

La situazione è diversa ad Atene e nelle grandi città, mi direte voi. Certo, dove si affrontano ben altri problemi igienici e di salute.

4. Mascherina

Nel frattempo ci siamo ormai abituati a portare la mascherina ovunque. Anch’io. A volte dimentico che sono per strada (a Berlino è obbligatoria solo in alcune strade) e la posso togliere perché penso che dopo un po’ dovrò entrare da un’altra parte e rimetterla. Mi sembra persino strano guardare vecchi film dove ovviamente la gente esce e si assembra: ho sempre l’impressione che manchi un elemento. La mascherina, appunto.

Fino a febbraio del 2020, andare in giro con il volto coperto era vietato in Occidente (a meno che la temperatura non era di 1 grado e uscivi imbacuccato in un’enorme sciarpa di lana), perché chiunque doveva essere riconoscibile per strada, altrimenti avrebbe potuto rappresentare una delle seguenti categorie:

– bandito/rapinatore;

– black bloc/terrorista;

– donna islamica

In Francia era vietato ogni simbolo religioso nei luoghi pubblici e quindi anche il velo e il burqa e tanti americani ed europei dopo gli attacchi alle torri gemelle, erano terrorizzati all’idea che gli islamici (che nell’immaginario collettivo corrispondevano contemporaneamente a musulmani e terroristi) potessero colonizzare l’Occidente imponendo quello che rappresentava la sottomissione della donna all’uomo. Sarà stato per non essere sottoposte ai giudizi degli occidentali che molte donne musulmane in Africa e anche in occidente hanno smesso di portare il velo o per lo meno di coprirsi il volto?

Il motivo per cui ci si copriva il capo ai cortei era invece che non potevi sapere quando la polizia avrebbe attaccato. Non era solo perché avevi voglia di fare casino, ma per non farsi riprendere dalle telecamere, dalle macchine fotografiche, per non rischiare di essere riconosciuti e di essere presi alla prima azione di rappresaglia. La figura ufficiale del black bloc creata per far paura alla gente, che altri non è che un manifestante come gli altri (oppure serve a coprire infiltrati della polizia che si intrufolano ai cortei per creare scompiglio), è tornata alla ribalta negli ultimi anni per la pretesa di distinguere i manifestanti cosiddetti pacifici da quelli violenti. Infatti col tempo la gente ha smesso di coprirsi il volto, forse perché con l’avvento dei social la vita di tutti è su Facebook, e nessuno si crea più una falsa identità digitale, e l’esporsi in pubblico non fa più così paura o perché le azioni della polizia non vengono prese sul serio, o perché si pensa che quando si è pacifici non ci sia nulla da temere, e quindi è diventato ancora più chiaro che quelli che vanno in giro con il viso coperto sono “quelli pericolosi”.

Non parliamo poi dei banditi. Chi non ha mai tremato vedendo qualcuno entrare in banca con un bavaglio sulla bocca?

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Eppure nel 2020 se entri in un luogo pubblico senza la mascherina o con la mascherina abbassata, ecco che qualcuno ti fa notare che la devi portare all’altezza del naso. E rischi anche una multa. Più che se viaggi sull’autobus senza biglietto. Sei un criminale.

È forse una questione di integrazione? Per immedesimarci tutt* in quelli che una volta erano considerati “diversi” o “pericolosi”? Per sentirsi tutti uguali? Tutti banditi, donne islamiche o black bloc?

O per quell’illusione di poter scongiurare una malattia mettendo un sottile lembo di stoffa tra sé e gli altri, anche quando si sta pigiati uno contro l’altro in un autobus col finestrino chiuso o peggio col condizionatore acceso?

Fatto sta che sta diventando talmente normale girare con la mascherina, che in molti si sono già scordati il motivo per cui la mettono (nonché le regole di igiene che bisognerebbe seguire connesse all’uso della mascherina) e iniziano a porre l’attenzione su che tipo di mascherina mettere come se questa sia un accessorio, una cintura, una borsa, una sciarpa. Parlo anche di me. Ai primi tempi ne ho avuta qualcuna addirittura di carta totalmente artigianale, con due elastici colorati per tenerla attaccata alle orecchie e dei fiorellini a mo’ di decorazione (quando è iniziato il lockdown e le mascherine non si trovavano più in giro perché i più veloci avevano già fatto scorta di quelle disponibili). In seguito ne ho avuta qualcuna di stoffa cucita a mano. E come molti ho perfino immortalato il momento in cui ho indossato la prima mascherina, forse perché non credevo davvero che l’obbligo sarebbe durato così a lungo o forse per rendere meno drammatica la situazione. O forse perché mi sembrava un momento importante come il primo giorno di scuola, quando entri in classe con lo zainetto e il grembiulino blu.

La prima mascherina, Ispica marzo 2020 Foto di Dafne Rossi

Persino gli artigiani nell’estremo tentativo di salvarsi dall’irrimediabile crisi economica, hanno cominciato a produrre mascherine di stoffa (quindi lavabili e riutilizzabili) dando sfogo alla fantasia: ci sono mascherine colorate, coi gatti, i cani, i fiori, frasi a seconda dei gusti del cliente/consumatore.

Naturalmente più sono “ecologici” e colorati, più questi accessori costano un occhio. È anche vero che non necessariamente gli oggetti per uso sanitario debbano essere bianchi e tristi. Ma renderli più belli, li rende anche più amati (al di là se siano utili o meno)? Una volta si diceva che anche le sbarre d’oro sono sempre sbarre.

5. Vita online

Ma c’è un’altra abitudine che sta diventando sempre più inquietante. Il lavoro online, la scuola online e.. le riunioni, i seminari, gli incontri online. Non che sia tutto negativo. Può essere una soluzione temporanea per non rinunciare a tutto quello che facciamo normalmente o per chi per un qualsiasi motivo si trova lontano da un evento a cui vorrebbe partecipare. D’accordo. Ma l’emergenza si chiama così perché è qualcosa che non dura, una volta passata, se la situazione per cui l’emergenza si è messa in atto continua a peggiorare, bisogna organizzarsi. Per quanto tempo pensiamo che internet sarà l’unico modo di vedersi? È pensabile fare una scuola online esattamente come si fa dal vivo? Persone che sono abituate a condividere praticamente i tre quarti della loro vita, a vedersi, raccontarsi, abbracciarsi, dormire, mangiare e sedersi sui banchi, passeggiare per i corridoi tutti i giorni per quasi nove mesi l’anno, possono di colpo pensare di fare tutto questo da casa? Tralasciando un attimo la questione del se sia sano per un ragazzo o un bambino frequentare compagni e insegnanti attraverso uno schermo o l’andare a scuola dovendo seguire una serie di regole che sono totalmente in disaccordo con quello che è il modo di fare e di pensare di un bambino (argomento che richiederebbe un articolo a parte), di solito un cambiamento radicale e repentino è sempre un trauma per chiunque. Anche per gli insegnanti che non sono abituati a qualcosa del genere. Senza contare la difficoltà oggettiva di fare alcune materie solo online. È già complesso cercare di capire la matematica eseguendo un’operazione con un gessetto alla lavagna e andando passo passo fino alla soluzione finale. Cosa succede tramite un computer?

Inoltre, ammettiamolo, molti di noi hanno un cattivo rapporto con la tecnologia.

Sento continuamente gente della mia età, che nonostante abbia familiarità con i computer sin dai 6-7 anni, si sente ancora incapace di usarne uno. Gli adolescenti “di oggi” invece che lo sanno usare benissimo, trovano il modo di saltare le lezioni ricorrendo alla fantasia e a tanti trucchi che la tecnologia mette loro a disposizione. Non lo fanno solo per complicare la vita all’insegnante (anche se poi è quello che soffre di più per questi scherzi). Lo fanno perché sono i primi a odiare questo nuovo metodo di scuola. Vi sembra strano? Si, molti adolescenti che prima avrebbero fatto carte false per assentarsi da scuola, ora non vedono l’ora di tornarci.

Lo stesso vale per le riunioni. D’accordo che a volte si possa usare internet per decidere delle cose tecniche velocemente senza per forza scomodarsi dal divano o magari interrompere le proprie faccende. Si, ma poi c’è la necessità di parlarsi dal vivo, guardarsi in faccia, incazzarsi, piangere, chiarirsi, fare a botte, pensare alle frasi da scrivere, alle comunicazioni da fare, calendarizzare gli eventi, tenere i registri dei conti, parlare di cose private senza orecchie indiscrete, e non si può essere soggetti ai capricci di internet, dell’audio del computer e delle cuffie, della telecamera che non si vede bene, della luce che manca, dei messaggi che si sovrappongono, perché prima di iniziare ognuno deve risolvere una serie di problemi di collegamento (esempi: “non trovo la stanza”, “non riesco a collegarmi”, “non vi vedo”, e così via all’infinito).

6. Meglio oggi che domani

Un’altra cosa da capire è come una società che si è fondata per millenni sin dai tempi degli antichi Greci, sul principio “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”, o “Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi”, “che bisogna pensare alle persone amate finché sono in vita perché la morte è sempre dietro l’angolo e non sai quando arriva, che il nostro destino è imprevedibile, etc etc, ora ha invertito la rotta, e accetta un nuovo principio: “Stiamo lontani oggi per riabbracciarci più forte domani”. Qualcuno potrebbe dire che questo principio non è affatto in contrasto con il primo. Questo è vero se ci dimentichiamo per un attimo che la morte può arrivare in qualsiasi momento a portarci via in tanti modi e ipotizziamo che esista solo il coronavirus a minacciarci. Ma quando non posso abbracciare i miei familiari per un mese, per un anno, per un tempo che non non so quanto potrebbe durare, che non posso decidere io, non metto in conto che per non rischiare di ucciderli col coronavirus rischio di non vederli più, perché il tempo scorre e nessuno è immortale e anche il 2020 ha fatto le sue vittime, di persone anziane e giovani morte per una serie di motivi che vanno dall’infarto all’incidente d’auto e poco hanno a che vedere con il coronavirus.

Quando sentiamo i numeri di morti in televisione non facciamo quasi più distinzione su chi è morto di cosa e ci scordiamo che la gente muore anche per altre cause. Inoltre c’è anche da dire che non è stata mai fatta distinzione tra chi “aveva” il coronavirus e chi è morto “di” coronavirus e questo fa una bella differenza e che altre malattie ben più gravi sono state messe in secondo piano per far fronte all’”emergenza”.

Non parliamo poi dell’inaffidabilità dei test, degli ordini ricevuti dai medici e dei soldi che gli ospedali prendono dallo stato se… Infatti non ho alcuna intenzione di parlarne, queste informazioni sono di dominio pubblico e ve le andate a cercare da sol*.

7. La speranza

Quello che invece mi preme sottolineare è l’ennesimo cambiamento della gente, la rassegnazione delle persone, la perdita della speranza.

Ispica, ottobre 2019, foto di Dafne Rossi

Siamo una società troppo abituata a stare bene per abituarsi al male. Tanto da non essere più capaci di sorridere nel dolore.

Prima dei famosi “miei tempi”, se uno stava male, si cercava prima di tutto di farlo stare bene psicologicamente. Vi ricordate Patch Adams, il medico che curava i malati con il sorriso?

Ora invece sembra ci sia un accanimento nel far sparire tutto ciò che fa bene all’anima delle persone. Sono chiusi cinema, teatri e qualsiasi luogo di arte e spettacolo o dove la gente si incontra per divertimento, ma non le poste, i supermercati molte fabbriche, considerate chissà perché “servizi essenziali”, anche se producono oggetti ben lontani dai bisogni “essenziali” degli esseri umani, o altri luoghi considerati normalmente luoghi di stress, come se il problema sia appunto il dover rinunciare al piacere. Eppure anche la spesa si può avere a domicilio e molte operazioni bancarie o postali si possono benissimo fare online. Ma questa consapevolezza non fa diminuire le file alle poste.

Berlino, ottobre 2020 foto di Dafne Rossi

Inoltre, persino persone che fino ad ora non si sono mai curate dei problemi del mondo, ora se ne escono con frasi del tipo “In una situazione del genere, ti metti a cantare sul balcone?” Ora, io non dico che andrà tutto bene, né ho particolare simpatia per gli arcobaleni a dir la verità un po’ stereotipati dei bambini, ma preferisco chi cerca di farsi forza e andare avanti, chi cerca un sorriso, persino chi si illude, piuttosto che accettare di sprofondare in una tristezza senza fondo solo perché per la prima volta dopo tanto tempo, quelli ad essere stati colpiti da una disgrazia, siamo noi, gli Occidentali che stanno bene e non si curano se nel resto del mondo ogni giorno muoiono migliaia di persone sotto le bombe, e altrettante per malattie altrettanto contagiose e molto più letali. Ora che a soffrire siamo noi sembriamo non accettarlo se il terzo mondo non soffre con noi per lo stesso problema. Sembriamo aver dimenticato che il Brasile è un paese dove per fare le Olimpiadi si sparava ai bambini che vivevano per strada, che in Africa non è ancora stata debellata la malaria, e in India la gente muore ogni giorno di fame e si fa il bagno in uno dei fiumi più inquinati della terra. No, ora questi paesi soffrono esclusivamente per il coronavirus come noi.

Abbiamo dimenticato che tutte queste disgrazie avvengono in buona parte per colpa nostra, per gli errori fatti in passato e per quelli che continuiamo a commettere e che persino il corona virus è una conseguenza di questi errori, errori che non ci curiamo nemmeno di correggere.

Abbiamo dimenticato che i nostri nonni hanno vissuto due guerre di portata mondiale, che durante queste guerre qualsiasi scusa era buona per svagarsi, teatri e cinema non hanno mai chiuso, anzi erano sempre pieni e la gente se poteva festeggiava per dimenticare le bombe, la fame, il pensiero di non rivedere più i propri cari che erano al fronte.

Ispica, 25 aprile 2020, foto di Dafne Rossi

E ora noi, i figli del benessere, che abbiamo allungato la prospettiva di vita di ben oltre gli 80 anni, che abbiamo debellato molte malattie e arricchito la nostra alimentazione (nonostante la qualità scadente dei prodotti che mangiamo), abbiamo il coraggio di frignare come se il mondo fosse finito, di arrenderci, di fermare le nostre vite per qualcosa che si può ancora combattere, perché a differenza dei nostri nonni, abbiamo a disposizione sicuramente molti più strumenti e molte più conoscenze per farlo.

E invece, anziché cercare soluzioni per migliorare il nostro stile di vita ci barrichiamo dentro casa con una buona dose di alcool e droghe varie, pay TV, grandi quantità di antibiotici. Chi può ovviamente. Perché nella nostra idea che chi non si cura della salute altrui sia egoista, non ci curiamo del nostro di egoismo, non pensiamo a chi una casa non ce l’ha o a chi lo stare chiuso in casa porta ben altri problemi di salute fisica e mentale e a chi, come si diceva all’inizio non può affatto permettersi di restare barricato dentro casa. E non pensiamo che uno stress mentale non fa altro che renderci più deboli e più attaccabili da virus vari ed eventuali.

Allora dovremmo far finta di niente e continuare a vivere come se nulla fosse? Assolutamente no.

Evitiamo di accettare di essere sfruttati con la scusa che c’è crisi, ricordiamoci per un attimo che le battaglie contro lo sfruttamento sono state fatte da gente che era ancora più sotto ricatto e minacciata di noi. Cerchiamo di informarci, di verificare le nostre fonti di informazione, di non lasciarci prendere dal panico. Non rinunciamo alle nostre vite, ai nostri progetti, ai nostri sogni perché se non avessimo un motivo per vivere sarebbero vani anche gli sforzi di chi ogni giorno combatte in prima linea questa e altre malattie per difendersi e difendere noi tutti.

Stiamo vicini e aiutiamo chi sta davvero male e non può uscire suo malgrado, noi che ancora possiamo farlo, invece di sentirci colpevoli perché siamo in salute.

Riapriamole le nostre case, che poi le case chiuse in Italia sono anche proibite, chiediamo al vicino il motivo per cui esce di casa, invece di denunciarlo alla polizia, facciamolo un sorriso alle telecamere prima di spegnere la TV, chiudiamo un attimo Facebook, saliamo sulla bicicletta e andiamo al mare, in campagna, sul fiume, nei parchi, e facciamo un ber respiro. Profondo.

E forse alla fine qualcosa andrà bene.

Dafne Rossi

27.11.2020

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Una risposta a Emergenza, terrore, nuove abitudini..la speranza

  1. Gio scrive:

    Grazie Dafne per aver condiviso il tuo sentire che sento molto vicino al mio. Restiamo uniti a cuore aperto con forza coraggio e tenacia. Tutto va bene già ora finchè ci sono persone come te, me e altri che hanno ancora speranza e operano, ognuno con il proprio talento, per una mondo migliore.

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