Coronavirus, stato di eccezione ed epidemie permanenti

Un virus che è stato chiamato COVID-19 ha causato quella che – secondo quanto sostenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – è una pandemia di livello globale.

Si tratta di un virus della famiglia Coronavirus, la stessa di raffreddori, bronchiti e polmoniti.

E’ dunque un ceppo di virus più che conosciuto. Ma per questo nuovo arrivo all’interno della famiglia virale, l’essere umano non aveva ancora né degli anticorpi, né un vaccino, né una cura che potesse garantire la guarigione.

Questo nuovo Coronavirus, almeno in una prima fase, ha dato prova di una maggiore velocità di diffusione, generando in media dai 2 ai 2,5 contagi in più per ogni singolo caso infetto rispetto a quelli influenzali. Ed ha provocato una percentuale più alta di forme severe. Causando ad oggi (1 giugno 2020) 33.475 vittime ufficiali dichiarate in Italia e 375.000 nel mondo.

Secondo i dati del Ministero della Salute del 14 marzo scorso – in piena fase epidemica – la percentuale di mortalità del COVID-19 in Italia era del 5,8%. Ma si trattava già allora di un dato con ogni probabilità al rialzo. Non essendo prima e non essendo tuttora mai stata mappata l’alta percentuale di casi asintomatici. Sia attuali che precedenti alla scoperta del virus ed alla dichiarazione dell’emergenza sanitaria.

Mortalità che ha colpito nella stragrande maggioranza dei casi, anziani con già una o più patologie croniche preesistenti (circa 3 in media). Ovvero quegli stessi soggetti che – nella dimenticanza pressoché totale dei discorsi di potere sul mondo sanitario – ogni anno muoiono in miglia solo in Italia per complicanze dovute ai picchi di influenza stagionale (fra i 4.000 e i 10.000 l’anno dal 2007 al 2017, secondo l’Istituto superiore di sanità. Nella gran parte dei casi per complicanze polmonari e cardiovascolari).

Inoltre questo nuovo Coronavirus ha lasciato e sta lasciando appunto una scia molto ampia di casi asintomatici (che non si capisce ancora bene se e in che misura siano contagiosi o meno). E di persone che guariscono, in buona parte senza bisogno di ricovero ospedaliero. Casi per i quali gli studi sembrano aver dimostrato che il sistema immunitario riesce, tendenzialmente, a produrre anticorpi di lungo periodo. I quali – se pure non garantiscono ancora una completa prevenzione da futuri contagi – dovrebbero garantire già un rischio minimo o ridotto circa la mortalità per chi li sviluppa (oltre a far ben sperare in termini di possibili cure o eventuali vaccini).

Non solo. Il COVID-19 ha dato per adesso percentuali di contagio e relativa mortalità piuttosto differenziate sia ad esempio fra diverse regioni italiane, che fra diversi paesi o aree del mondo (sebbene l’attendibilità e la metodologia di rilevamento di tali dati possano essere discutibili). E sembra per così dire “prediligere” aree più industrializzate, dove la massificazione sociale data dai sistemi di fabbrica diventa maggiormente uno stile di vita ed una condizione generalizzata.

A tutto questo si aggiunge il fatto che solo in Italia, con i 70 milioni di euro che quotidianamente lo Stato destina alle spese militari (2 miliardi al mese), si potrebbero costruire e attrezzare 6 nuovi ospedali o acquistare 25. 000 respiratori (immaginatevi cosa si potrebbe fare se, semplicemente, queste spese – come molte altre inutili – non esistessero).

In un paese che all’arrivo dell’emergenza COVID-19 aveva 231 fabbriche di armi comuni, e ben 334 aziende annoverate nel registro delle imprese a produzione militare. Ed una sola invece che produce quei respiratori polmonari risultati (a quanto pare) decisivi per dei reparti di terapia intensiva che hanno risentito fortemente dei tagli e delle privatizzazioni che hanno caratterizzato anche il sistema sanitario pubblico negli ultimi anni. Con tutto quello che ne è conseguito sia in termini di collasso degli ospedali che di mortalità sul lavoro per medici e infermieri che hanno dovuto affrontare l’emergenza.

In un corto circuito tipico della medicina occidentale (cioè di quell’approccio alla medicina che si è sviluppato in seno agli Stati occidentali nella modernità. E che ormai riguarda a livello istituzionale non solo l’Oriente e l’Occidente, ma praticamente tutto il globo terrestre) ci si è preoccupati ossessivamente di come curare o meglio dichiarare guerra ai sintomi. Senza preoccuparsi altrettanto di come individuare e risolvere le cause della pandemia. Praticamente tutti gli Stati del mondo, a partire dalla vicenda cinese e dalle richieste dell’OMS, si sono adoperati per imporre misure di prevenzione che in alcuni casi hanno ridotto interi popoli (caso senza precedenti nella Storia) ad uno status giuridico di fatto non dissimile da quello degli arresti domiciliari.

In alcuni casi, come quello italiano, la pressoché totale impreparazione ed incapacità nel gestire la situazione di emergenza, si è tradotta anche in una pressoché totale incapacità politica di adattare il protocollo medico dell’OMS allo specifico contesto sociale, culturale ed economico. Invece di valorizzare – ad esempio – l’attività fisica, l’alimentazione e gli stili di vita sani, l’aria pulita e gli spazi aperti come condizioni a partire dalle quali i virus non si diffondono, o non diventano patologicamente pericolosi, ci si è prodigati per mesi – con tanto di droni e posti di blocco ovunque – nel costringere la gente a non uscire, a non spostarsi e a non allontanarsi oltre i 200 metri da casa. Criminalizzando o additando come untori e principali responsabili dell’aumento dei contagi chi andava troppo spesso al supermercato, portava troppe volte fuori il cane, faceva giocare i bambini ogni tanto in un giardino, un parco o una piazza. Talvolta recapitando a casa e rendendo obbligatorie persino per passeggiare, mascherine chirurgiche che hanno con i virus l’effetto di un’inferriata con i moscerini (e che anche l’OMS in generale considera sensate solo in spazi chiusi, o in caso di vicinanza con persone contagiate).

Invece di domandarsi se all’ampia percentuale di asintomatici o persone con sintomi lievi corrispondesse uno stile di vita più sano e/o una maggior capacità di sviluppo di difese immunitarie, ci si è scervellati per decretare se questi soggetti fossero contagiosi e per moralizzare i giovani che volevano andare a trovare partner e fidanzati anche a 10 minuti di distanza da casa.

Allo stesso modo, invece di puntare su una riconversione del lavoro che facesse fronte all’emergenza e andasse verso sistemi economici sani, orizzontali ed ecologici, si è lasciato a deprimersi fra le mura domestiche anche soggetti che avrebbero potuto gestire attività lavorative solidali in condizioni di sicurezza sanitaria, senza rischi di un contagio pericoloso. Invece di puntare organicamente su esperienze come quelle dei gruppi di acquisto solidali, delle comunità contadine e di alcuni spazi sociali – che hanno attivato sportelli solidali e servizi di sostegno alimentare, con consegna di spesa a domicilio per soggetti seriamente e rischio – ci si è affrettati a riaprire il prima possibile le fabbriche che producono F35. E a lasciare in attività, con turni e condizioni ancora più insalubri, rider, lavoratori dei supermercati, dei call center, ecc. Dove guarda caso si sono verificati i casi principali di decessi anche fra persone in piena età lavorativa. Invece di elaborare programmi di prevenzione rigorosa per anziani e soggetti a rischio, dove impiegare eventualmente in sicurezza anche quelle fasce di popolazione lavorativa meno a rischio, si sono scaricati i contagi di COVID -19 nelle RSA e in reparti di ospedali del tutto impreparati ad accoglierli e gestirli senza diventare essi stessi i principali focolai di contagio.

Tutto questo – seppur relativamente diversificato a seconda dei paesi, delle regioni o delle culture – ha portato e sta portando intere società sull’orlo di crisi economiche che rischiano di avere conseguenze ancora più gravi e di lungo periodo del virus.

Per non parlare delle conseguenze su un piano psicologico.

Esponenziale è stato verosimilmente in questi mesi, l’aumento del consumo di alcool, tabacco, cibo industriale, pornografia. Così come verosimilmente in aumento potrebbero essere state le violenze e gli abusi domestici verso donne e bambini. In un momento in cui tutto il mondo era occupato a preoccuparsi di denunciare altro. Senza considerare il consumo di droghe, l’emarginazione e il disagio di chi già da prima non aveva accesso a condizioni abitative e igieniche adeguate. Molte di quelle stesse persone più deboli in nome delle quelle si sono imposti i lockdown, si sono debilitate fisicamente e psicologicamente più di quanto probabilmente avrebbero fatto se si fosse potuta gestire la prevenzione facendo leva sul libero senso di responsabilità di una coscienza sociale adeguata.

Si sono verificati anche casi di suicidio. Sia di anziani che non riuscivano a sostenere la solitudine imposta dal lockdown, sia di giovani che avevano perso il lavoro. Ed è possibile che queste forme di depressione proseguano ben oltre l’emergenza. Nella misura in cui le nuove condizioni imposte dai governi a livello globale acuiranno ulteriormente, da tutti i punti di vista, le disuguaglianze. E renderanno ancora più difficile vivere dignitosamente una vita per milioni di persone di ogni età.

Ma ancor più inquietanti sono state e potrebbero essere le conseguenze su un piano sociale e culturale. Il distanziamento sociale – individuato fin da subito come unica misura possibile di prevenzione dal contagio di un virus probabilmente ubiquitario (che potrebbe tornare a ondate e picchi stagionali, più o meno pericolosi) sta diffondendo una mentalità sintetizzabile in “contatto umano = pericolo di contagio = assembramento sociale”. Da “assembramento sociale” a “spazio sociale” il passo sarà breve. E le realtà più colpite sul lungo periodo dal virus della diffidenza e della paura, saranno proprio quelle che fanno della socialità e dell’autogestione la loro modalità organizzativa, oltre che la loro ragione di esistere.

Senza fare complottismi o congetture sull’origine più o meno naturale o premeditata del virus, è verosimile che ci siano strategie di potere ben precise volte a indirizzare le società verso una sempre maggior disciplinazione da parte delle istituzioni (mai prima nella Storia lo Stato era arrivato fino a definire scientificamente la distanza esatta da mantenere pubblicamente fra due corpi-mente. O a decidere organicamente con quali persone e in che modo si potessero avere dei semplici contatti fisici, anche all’interno di uno stesso nucleo familiare).

Oltre che a spostare il piano economico e relazionale sempre più sul digitale. Esponenziali sono stati e saranno i profitti di aziende come quelle delle telecomunicazioni, dei social media e di acquisti on-line (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google solo per citarne alcune).

In un sistema economico che da decenni ormai era sull’orlo della crisi ecologia e dell’esaurimento delle risorse, quello di internet e della rete sarà un giacimento potenzialmente infinito da cui attingere profitti e speculazioni. Così come dal capitalismo a trazione industriale si era già passati da anni a quello a trazione finanziaria, da un’economia delle risorse materiali e naturali si passerà sempre più a un’economia delle risorse digitali. Con tutto quello che ne conseguirà in termini di ulteriori trasformazioni sociali, culturali, oltre che di alienazione e spersonalizzazione della vita e delle relazioni anche più elementari.

La didattica a distanza, già diventata abituale nel periodo di chiusura delle scuole e delle università, rimarrà probabilmente in misura significativa anche alla riapertura di quest’ultime. Con tutto quel che non conseguirà in termini di allargamento della forbice del divario sociale fra i giovani. O di avanzamento per quei soggetti che più si adatteranno ai linguaggi ed alle pratiche disciplinari e cognitive richieste da questo metodo di insegnamento.

Per non parlare dei dispositivi di controllo e sorveglianza che diventeranno pane quotidiano. Come le app. per tracciare i contagi mappando gli spostamenti dei cittadini. O i braccialetti che si attivano vibrando e suonando un allarme quando due o più persone si avvicinano oltre le distane consentite (com’è già stato proposto o ventilato per le vacanze estive in spiagge e villaggi turistici. O addirittura per le scuole, comprese quelle dell’infanzia).

Nella misura in cui non riusciremo a trovare delle forme di risposta alternative (e non è detto che eventuali cure o vaccini portino via con loro, oltre al virus, anche i mutamenti strutturali che esso causerà su vasta scala), ogni lotta e prospettiva sociale di tipo orizzontale, assembleare, anarchico o libertario sembra duramente compromessa, se non a condizione di sublimarla sulla rete. Altra verosimile conseguenza di lungo periodo dell’attuale gestione dell’emergenza da COVID-19 sarà quella di abituare ancora di più la gente a pensare che gli Stati, i governi, la tecnologia industriale e la scientocrazia verso la quale stanno portando l’attuale gestione del poter politico, siano indispensabili alla tutela della vita e della salute dei cittadini.

Quella stessa ingegneria sociale che da sempre caratterizza il potere borghese, ovvero appunto la distanza, il sospetto, l’individualismo e il principio per cui <<la mia libertà finisce>> (e non comincia) <<dove inizia quella dell’altro>> si dipanerà all’ennesima potenza. Togliendo alle persone non solo il piacere e la gioia di vivere più grandi, ovvero quelli della socialità e delle relazioni diffuse (fisiche e mentali). Ma anche ogni possibilità di azione e prospettiva rivoluzionarie, venendo meno quella capacità di accelerazione energetica nel contatto umano che caratterizza ogni emancipazione nella Storia dell’umanità. E la sua capacità di andare imprevedibilmente oltre schemi, linguaggi, immaginari e pratiche socialmente costruite in ogni epoca dal potere.

Oggi più che mai è necessario lottare per riaffermare la possibilità di una socialità radialmente diversa, libera ed orizzontale, come primo anticorpo contro la diffusione di ogni virus, compresi quelli della diffidenza, dell’egoismo e del controllo.

Alcuni segnali interessanti arrivano proprio dalle contraddizioni stesse di questo ennesimo rigurgito della civiltà, e dalle faglie che si aprono al loro interno. Come il ritrovato interesse per le attività ludiche nei parchi, in campagna e negli spazi aperti. O la ripresa della mobilità su due ruote e su due gambe. Con le relative tipologie di socializzazione che ne derivano (per quanto mutilate dai protocolli di sicurezza).

Ma si tratta di risposte ancora prive di una coscienza ampia e radicale sulla questione. Che rischiano di diventare dei palliativi a una nuova vita trascorsa in gran parte davanti a un monitor od allo schermo del telefonino.

Questa pandemia è la conseguenza dei sistemi sociali e degli stili di vita dominanti a livello globale. Fino a quando non riusciremo ad approdare ad una società pienamente ecologica, basata sulla cooperazione ed il rispetto per ogni forma di vita, ogni azione volta alla tutela della nostra salute e di quella delle altre specie si tradurrà inevitabilmente in una negazione della vita stessa. Con conseguenze ancora più catastrofiche di quelle che ci hanno portato fin sull’orlo di questa crisi.

 

 

Edoardo

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gruppo pacifista, ecologista, libertario.
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