“A rivista anarchica” ha pubblicato sul numero di maggio questo articolo CUSA, in occasione del nostro decimo anniversario.
L’articolo ripercorre le tappe che abbiamo fatto in questi anni, cerca di analizzare la situazione attuale alla luce anche del nostro percorso, e propone dei possibili sviluppi verso un nuovo (e sempre più necessario) umanesimo anarchico.
Ringraziamo la redazione di “A” per questo bel regalo di compleanno!
Qualcuno nel 1992 aveva provato a proclamarla la fine delle Storia.
Quando un sistema di potere che si credeva naturale come il ciclo degli equinozi o la forza di gravità, crollò improvvisamente sotto i colpi di un blocco contrapposto. E delle menzogne sulle quali fin dall’inizio si era fondato. Lasciando campo a un capitalismo e un liberismo sfrenati, che si sarebbero spinti ben oltre le più nere previsioni.
Qualcuno allora tentò delle improbabili “Rifondazioni”. Sostenendo ai congressi nazionali che il fatto che una delle più gravi tragedie della Storia fosse coincisa con lo stesso apparato ideologico del loro partito, non richiedesse una riflessione critica su di esso. Ma che si trattasse di una spiacevole e imprevedibile coincidenza, dipesa dall’errata interpretazione di alcuni personaggi fraudolenti, indegni di quel simbolo e di quel nome (quelli stessi personaggi che si era incensato pubblicamente, fino a pochi anni prima).
Ma la barca non ha retto a lungo la tempesta. Nei cuori di molti militanti storici dei partiti comunisti, non solo la socialdemocrazia, ma persino la Croce sarebbe tornata a prendere il sopravvento. E in mancanza di quella seria riflessione sulle vicende storiche e sui paradigmi di liberazione, ci si è trincerati nella difesa delle istituzioni nate con l’avvento storico della borghesia.
Istituzioni che ormai quasi più nessuno riconosceva come il nemico da abbattere o da superare. Una volta mascherate da costituzionalismo all’italiana, sotto lo slogan del “Noi non siamo stalinisti, perché siamo sempre stati per l’alternativa democratica” (cioè per quella linea fatta introdurre proprio da Stalin nei parti comunisti occidentali, dopo la Seconda guerra mondiale).
Nel frattempo la critica e la contestazione allo statalismo di sinistra avevano iniziato una nuova fase già con gli anni ’60 e ’70. Di pari passo con un relativo riflusso dell’anarchismo ideologico, anch’esso bisognoso di una riflessione critica sui suoi presupposti, dopo l’esperienza della rivoluzione e della Guerra civile spagnola. Ma in mancanza di una seria riflessione sul tema della soggettività anche il post-strutturalismo – per quanto prezioso nei sui apporti alla liberazione dal “discorso del potere” e dalle istituzioni disciplinari – avrebbe ben presto ceduto il passo alle folgorazioni sulla via di Damasco. Che hanno portato ad esempio i suoi adepti delle attuali generazioni, ad abbracciare Comunione e Liberazione in alcuni casi già a 20-30 anni.
Gli spazi sociali invece sono stati forse una delle esperienze più positive di questa parabola, pur con tutte le loro contraddizioni e i paradossi.
Nati con l’idea di ricreare un tessuto sociale frantumato intorno a delle idee socio-politiche, nell’intento di superare i modelli della società patriarcale e capitalista ne hanno proposti di nuovi. Cercando altri modi di prendere decisioni comunemente.
I movimenti di ribellione al sistema capitalista sono stati mosaici di molteplici identità. E nel loro piccolo i centri sociali hanno espresso questa diversità.
Il centro sociale è antifascista per definizione. E a volte si trova nello stesso spazio gente con posizioni diverse che condivide gli stessi disagi nel quotidiano, vivendo gli stessi quartieri. Perciò gli spazi sociali hanno puntano a sviluppare forme di resistenza collettiva come le ciclofficine popolari, i gruppi d’acquisto solidali, gli orti urbani, le palestre. Con l’intento di stabilire rapporti diretti tra produttore e consumatore, fino all’autoproduzione. Usando nuovi mezzi di trasporto, mettendo in moto meccanismi di scambio e riuso, condividendo le proprie competenze.
Purtroppo però molte persone si sono chiuse dentro queste quattro mura, e hanno preteso di farne un mondo perfetto, tagliando fuori il resto della comunità.
Il momento assembleare ha sempre più perso la centralità e la circolarità che aveva inizialmente. Proprio in virtù delle carenze su un piano della ricerca soggettiva, individuale e sociale, da parte dei riferimenti usciti dal post-strutturalismo, e andati per la maggiore in questi ultimi decenni.
Difficile capire quando si può scendere a patti, a volte è impossibile, o quando le idee sono troppo diverse.
E la diversità, che da un lato è stata sempre una ricchezza, ha portato anche a rotture e a gruppi sempre più ristretti di persone che, oltre a isolarsi, hanno facilitato involontariamente le infiltrazioni di polizia e DIGOS. Generando a loro volta diffidenza verso le nuove persone che si avvicinavano agli spazi sociali.
Hanno contribuito a questi fenomeni anche le politiche di “assegnazione”. Grazie alle quali i centri sociali, a discapito della loro libertà, sono diventati di fatto proprietà di chi li gestisce e si sono assoggettati sempre più all’istituzione. Sempre in mancanza di strategie sociopolitiche (ma anche di riferimenti culturali), che riuscissero a offrire un’autentica prospettiva di liberazione dallo Stato. Il quale ha potuto pretendere un affitto, esigendo il rispetto di alcune regole. Ed essere sicuro che tutto quello che avveniva all’interno di essi, vi rimanesse confinato e non si manifestasse all’esterno.
Di conseguenza, si sono riprodotte dinamiche di potere e sopraffazione, che ogni persona si porta dietro dall’ambiente in cui è nato e cresciuto. Ed essendo i centri sociali composti da piccoli gruppi di persone che condividono anche momenti di vita, è stato spesso difficile tenere separati i rapporti personali da quelli socio-politici (ammesso che ciò sia possibile).
Inoltre, molte persone si sono allontanate sempre più dal mondo reale. E quando hanno tentato di tornarci, si sono sentite additate come “drogati” o “fattoni comunisti”.
Il concetto di “legalità” ha attecchito su quello di “legittimità”, e la gente si è allontanata dalla gestione della comunità. Considerandola come un affare di chi governa, e definendosi sempre di più “apolitica”.
Da questa tendenza hanno tratto guadagno anche gruppi neo-fascisti, che negli ultimi anni hanno ricominciato a sfilare pubblicamente in piazza. Esibendo croci celtiche e svastiche, finché qualcuno di loro, più bravo oratore e più ambiguo, è arrivato al governo.
Ora i centri sociali stanno tentando di tornare nelle strade e nelle piazze a parlare con la gente, e ricreare quella collettività che era il loro originale intento.
Chi non si è assuefatto al volere dell’istituzione però, nel tentativo di uscirne fuori, si trova davanti all’insormontabile difficoltà di affrontare il mondo esterno.
Alcune correnti minoritarie di queste esperienze infatti, avevano già iniziato a presagire fin dalla loro origine, la crisi di alternative basate da un lato sulla difesa di paradigmi obsoleti come materialismo, scientismo e determinismo. Dall’altro su un nichilismo o un anti-umanesimo filosofico altrettanto sterili sul lungo periodo. E facilmente cooptabili da quei sistemi di potere che pretendevano di osteggiare.
Sono fioriti così negli ultimi decenni, movimenti ecologisti e nonviolenti, lotte comunitarie e territoriali, marce per il clima ed il disarmo, manifestazioni e coordinamenti antirazzisti, collettivi e movimenti artistici di strada. Parallelamente a nuovi contributi al pensiero, tanto ignorati quanto fondamentali per i possibili percorsi futuri dell’umanità.
Si sono riscoperti e riletti criticamente autori come Jung, Feuerbach, Husserl. E indagato nuovi campi di ricerca posti ad esempio dalle neuroscienze e dalla fisica quantistica.
Ma la strada verso questo nuovo umanesimo, ed ancor più verso questo nuovo umanesimo anarchico, sarebbe stata lunga, difficile e controversa. Portandosi dietro il fardello degli irrisolti e le contraddizioni del passato, si sarebbe scontrata da un lato con la dura repressione e screditamento da parte del potere. Dall’altro con la prevedibile ostilità e diffidenza dei settori dell’antagonismo più legati ai valori ed alle formule tradizionali.
Preso fra due fuochi e in mezzo a questo pantano, gli aneliti e le spinte rivoluzionarie si sarebbero purtroppo presto arenati. In mancanza anche di un’adeguata risposta da parte delle forze e dei movimenti di ispirazione anarchica e libertaria. Rimasti tendenzialmente arroccati in questi anni, salvo alcune significative eccezioni, su paradigmi tradizionali. O al massimo su quelli usciti come dominanti dalle elaborazioni fatte fra anni ’60, ’70 e ’80.
Di tutto questo ne vediamo purtroppo oggi in Italia la più fulgida conseguenza, nell’affermarsi di fenomeni populisti e legalitari come il Movimento 5 Stelle. I quali hanno riportato pienamente la questione “umanistica” su un piano della strenua difesa delle istituzioni democratiche e repubblicane. Con gravissime conseguenze in termini di crisi migratoria e di repressione degli spazi sociali. Ma anche di aumento di diseguaglianze, controllo sociale, limitazione degli spazi sindacali, rafforzamento dell’economia imprenditoriale e abiura de facto della lotta anticapitalista.
Dunque se qualcuno nel 1915 profetizzava per il futuro prossimo della propria epoca un chiaro ed inequivocabile Socialismo o barbarie, non si sarebbe forse avventati oggi se si azzardasse un altrettanto premonitore Umanesimo (anarchico) o fine della Storia.
Oggi che ogni altra alternativa al capitalismo in tutte le sue forme sembra ampiamente fallita. E i suoi mentori hanno scatenato una resa dei conti finale con la Storia stessa; contro ogni tentativo rivoluzionario.
Quella Storia con cui i tutori dell’ordine vigente sanno di avere delle fratture e degli irrisolti ormai insanabili. E che stanno cercando di portare verso un nuovo Medioevo sociale, culturale, psicologico.
Oggi più che mai, abbiamo bisogno di una nuova e diversa soggettività possibile. Una soggettività che partendo dalla dimensione percettiva, di valore alla sfera emotiva e irrazionale, coniugandola con quella del pensiero.
E a partire da questo, sia in grado di rompere con gli immaginari e i linguaggi codificati. Sperimentando da un lato nuovi percorsi creativi di emancipazione oltre le “Colonne d’Ercole” del modo istituito. Dall’altro, elaborando costantemente delle forme organizzative e delle strategie socio-politiche, che non siano modelli assoluti o “definitivi” di quel percorso di liberazione. Bensì delle strutture in divenire, capaci di evolversi e ricrearsi continuamente.
Per incidere sulla realtà presente, declinandola verso i nuovi immaginari che quell’istinto alla creatività produce.
Abbiamo bisogno di ricercare un umanesimo non antropocentrico, come vitalismo alternativo – e antagonista – sia a quello religioso che a quello nichilista.
Questo umanesimo, ovviamente, non potrebbe che essere anarchico.
Questo mese di maggio 2019 “CUSA – umanesimoAnarchico” festeggia il suo 10° anniversario.
10 anni di lotte pacifiste, ecologiste, antirazziste, nonviolente, libertarie.
Vogliamo continuare a lungo questo percorso assieme.
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