Fra crisi economica, equilibri mondiali e nuove prospettive di liberazione (già pubblicato il 10/05/09 su cusa.splinder.com)

E così arrivò anche la tanto agognata crisi economica. Una di quelle crisi – ci dicono – che sono inevitabili nel sistema capitalista e che noi comuni mortali dobbiamo accettare perché <<è così, non ci si può fare nulla…>> (il prof. di Storia Economica), o perché <<eh oh, d’altra parte siamo arrivati a questo punto…>> (il direttore della filiale del Monte dei Paschi).

Crisi economica

Ancora una volta i potenti di turno, di fronte ad una situazione che loro stessi hanno creato, ma che sfugge loro di mano e che incasinerà ulteriormente la vita dei popoli sui quali essi dominano, non trovano altro modo per sfuggire alle loro enormi responsabilità, che non sia quello di presentare questo sistema sociale e le sue malefatte come fossero il naturale ordine delle cose.

Col piccolo particolare che, tenendo bene a mente la lezione impartita dalla grande crisi del 1929, molti di loro gran parte dei capitali se li sono salvati per tempo dentro i paradisi fiscali e le banche estere. Diversamente da quel che è toccato in sorte a molti lavoratori salariati e dipendenti, che si sono visti tagliare stipendi e orari, quando non hanno addirittura perso il posto di lavoro. In praticamente tutti i settori le assunzioni sono bloccate, fatta eccezioni per contratti precari, a condizioni lavorative reali fuori dal minimo del diritto sindacale, e rigorosamente a tempo determinato.

E d’altro canto non c’è neanche tanto da meravigliarsi, visto lo stato di complementarità al sistema nel quale vigono tutti i principali sindacati, i quali nel migliore dei casi difendono comunque a spada tratta i settori del pubblico impiego statalizzato e burocratico.

Ma in realtà, per chi ha già smesso di credere da tempo alla “ovvietà” di questo sistema, questa crisi economica non è affatto una sorpresa, bensì solo l’ultimo atto di una crisi complessiva del sistema stesso che prosegue ininterrottamente a fasi alterne perlomeno dagli anni ‘70.

E’ infatti dai tempi della prima crisi energetica del 1973 e dalla successiva riorganizzazione del capitalismo post-industriale, che viviamo un processo di reazione generalizzato e di peggioramento della vita su praticamente tutti i campi dell’esistenza. Espressione perversa di un Villaggio Globale che incubava i germi della sua decadenza già dal momento in cui andava terminando la sua definizione. E che secondo i più pessimisti potrebbe terminare con un disastro ambientale ed energetico, il che potrebbe significare il genocidio di milioni, forse miliardi di esseri umani.

1968E’ utile dunque ricordare ad esempio che è da dopo il ‘68 ed i suoi strascichi che i conflitti sociali sono stati mano mano normalizzati. Nella complessiva accettazione dello Stato di diritto, o dello Stato sociale, o dell’Organizzazione delle Nazioni Unite come massime frontiere della liberazione umana nell’epoca della modernità.

Oppure che – sempre da quel fatidico 1973 – sono stati irreversibili i processi di privatizzazione dei settori economici, di precarizzazione del lavoro e di peggioramento delle condizioni lavorative, in praticamente tutti i paesi, ove più ove meno. Giustificati con l’urgenza di “flessibilizzazione” della produzione da parte delle grandi imprese, ai fini di mantenere il sacro principio dell’economia di scala, altrimenti in pericolo per la crisi delle risorse.

Della serie: <<Noi dobbiamo tagliare da qualche parte, perciò non possiamo più permetterci tutti i vostri dirittucoli sindacali. O abbandonate le pretese sul posto fisso, sulle 8 ore, sulle ferie garantite, sulla sicurezza sul posto di lavoro, sulla tutela dell’ambiente, ecc., oppure tutto il sistema non è in grado di reggersi in piedi. E siccome il sistema lo comandiamo noi, e siccome lo Stato che legifera sui vostri diritti ha un sacco di debiti con noi, e siccome i vostri sindacati accettano la contrattazione coi governi, e siccome voi non vi ribellate più a questo… ciò che è detto è fatto>>. Peccato che – come da miglior tradizione capitalista – ogni crisi tamponata è un’ altra crisi che ha da venire, e così eccoci qua.

E di pari passo è aumentato il potere delle istituzioni finanziarie internazionali – WTO, Banca Mondiale, ecc – che ogni giorno di più esautorano il potere reale degli Stati nazionali, contribuendo a determinarne la crisi. Una crisi che nell’epFoto Cile II 061oca della standardizzazione globale, significa una profonda perdita di punti di riferimento nella formazione dell’identità dei popoli e delle persone. In risposta alla quale proliferano nel mondo i conflitti etnici, religiosi e culturali. Oppure, crescono il razzismo, l’intolleranza e la xenofobia nei paesi occidentali, ogni giorno più “invasi” dalla marea di persone che sono costrette a lasciare la propria terra di origine per cercare fortuna nella testa del Mostro.

Come dimenticare il capolavoro della moneta unica europea, accolta con simpatia e curiosità da praticamente tutta l’opinione pubblica (compresa quella di “sinistra”), e che com’era prevedibile ha significato in molti pesi l’aumento fino al 100% dei prezzi di tutti i beni, a condizioni salariali rimaste immutate quando non addirittura peggiorate (ma secondo voi, i capitalisti e i finanzieri europei, fanno una moneta unica perché hanno a cuore che non perdiamo tempo a cambiare i soldi quando andiamo a fare i viaggi all’estero, oppure perché così risparmiano un botto di quattrini in tassi di cambio quando muovono i loro capitali su e giù per il Vecchio Continente?).

Ma il vero emblema di questi trent’anni e passa di declino sistemico, sono state senza dubbio le guerre statunitensi, scatenate in gran parte dalla destra neo-conservatrice, eccezion fatta per quella nei Balcani. In particolare la regione mediorientale – caso strano, quella con le maggiori risorse petrolifere – è stata oggetto delle mire espansionistiche dell’imperialismo occidentale, intensificatosi maggiormente dopo il fatidico 11 Settembre 2001.

Guerra

Ma l’ultima guerra in Iraq ha ingarbugliato il bandalo della matassa. La così detta “guerra al terrorismo” si è rivelata per la marionetta George W. Bush e per i suoi burattinai, molto più complessa di quelle che erano state le loro rozze previsioni.

Perché i popoli del Mondo hanno cominciato a ribellarsi maggiormente all’arroganza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Di fronte all’evidenza, non solo delle balle colossali sulle quali era stato giustificato l’intervento, ma anche del fatto che l’aggressione statunitense alimentava e non arrestava affatto la crescita del terrorismo e del fondamentalismo religioso. Dall’indocile America Latina all’ondata pacifista in Europa, dai popoli dei paesi arabi medesimi allo stesso universo del pacifismo americano, un po’ ovunque l’indice di popolarità e di salute del dominio a stelle e strisce faceva registrare dei segnali di calo che quanto meno non si potevano sottovalutare.

E’ in questo contesto che – in piena logica dell’alternanza democratica – si inserisce la storica elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. E a dire la verità, c’era davvero da chiedersi se il popolo americano (o almeno, quella metà che va a votare) avrebbe dato una risposta di “cambiamento” più moderata, eleggendo l’altra candidata democratica, la Clinton. O se addirittura la reazione sistemica avrebbe dato un ulteriore colpo di mano, qualora putacaso avesse dovuto spuntarla il nuovo candidato repubblicano, McCain.

Niente di tutto ciò. A spuntarla è stato invece un uomo che rappresenta un passaggio cardinale per la storia del potere. Un uomo che incarna in maniera emblematica il principio secondo il quale, il sistema di potere più duraturo è quello che più riesce ad assimilare i fenomeni che nascono come suoi corpi estranei, o addirittura come suoi opposti.

Così la democratica nazione americana – campionessa da sempre di imperialismo e di capitalismo – fondatasi sullo schiavismo e lacerata nei secoli dalle lotte di liberazione della loro vastissima popolazione nera, ha ritenuto che fosse giunto il momento opportuno per sancirne la definitiva integrazione politica. Cosa che d’altra parte avevano già fatto pienamente – ad esempio – Mtv e il mondo dei mass-media e dell’intrattenimento in generale, per quanto riguarda l’integrazione culturale (ma avete idea di quanto questo voglia già dire, nell’epoca della “società dello spettacolo?”). E la cui incubazione è da ricercarsi anche nelle contraddizioni espresse a suo tempo dalle stesse avanguardie del movimento degli afroamericani.

Ma se si potevano avere dubbi sul fatto che il VillaggioObama Globale fosse pronto a ciò, e che Obama sarebbe riuscito nell’impresa, il senso della sua vittoria si chiarisce invece, proprio col dispiegarsi di questa crisi economica, acutizzarsi della più generale crisi sistemica della quale si è detto prima.

Gli “States” hanno urgentemente bisogno di recuperare consensi fra gli oppressi e fra la gente comune, sia all’interno che all’esterno del loro territorio. E quale ricetta migliore allora, per riavvicinare gli oppressi alle istituzioni che li opprimono, di quella del primo presidente di colore, che si presenta come l’ultima frontiera dell’intramontabile “American Dream”, e dichiara di voler chiudere Guantanamo e di volersene andare dall’Iraq. Il quale guarda caso, nel parlare di pace nel Mondo, diritti civili e diritti umani, sembra proprio riportare alla memoria di tutti il Martin Luther King di “I have a dream”.

Ma non solo: c’è anche da fronteggiare la recessione economica, e nessuno meglio di Obama è in grado di assumersi la responsabilità di garantire il sostegno dello Stato alle imprese ed alla domanda. In un’America che davvero ha voluto e saputo imparare la sonora lezione del 1929 per impartirla al treno dei paesi “sviluppati”.

Per non parlare dell’immagine internazionale degli USA. La vociferata chiusura di Guantanamo e la volontà di ritiro dall’Iraq (fiori all’occhiello della campagna elettorale di un presidente che si è presentato dicendo <<La mia elezione dimostra che in America davvero tutto è possibile>>) faranno verosimilmente risollevare – almeno agli occhi dei meno lungimiranti – la reputazione degli Stati Uniti. Peccato che il presidente abbia già fatto sapere che molte delle truppe sottratte al pantano iracheno, che sembra in via di stabilizzazione, saranno semplicemente destinate al rinato pantano afgano, dove non è mai stata completamente piegata la resistenza talebana e dove è ancora vivo lo spauracchio di Al Qaeda. Senza parlare del fatto che l’amministrazione Bush e le sue guerre spericolate, hanno lasciato un debito pubblico preoccupante se non affrontato per tempo.

<<Ma come?! E l’aumento della pressione fiscale sulla élite più ricca del paese? Il sostegno ai salari e la redistribuzione del reddito? La lotta alla disoccupazione e ai licenziamenti, l’estensione dell’assicurazione sanitaria a fasce di popolazione meno abbienti? E il pacifismo di un presidente che si rifà alle lotte lotte per i “civil rights” degli afroamericani, e dichiara di voler aprire il dialogo coi paesi dell’”asse del male” di Bush? Tutte menzogne strumentali? Tutti proclami in malafede?>>

Certo, non si può dire questo, almeno non con rigore. Probabilmente bisogna imparare a distinguere – su un piano dell’analisi – fra piano umano e piano sistemico, fra microfisica e macrofisica del potere: Può anche darsi che Obama sia in buona fede nei suoi intenti di politiche sociali e di lotta allo strapotere delle lobby. E può anche darsi che egli non condivida affatto le guerre preventive o di aggressione, come è stata quella in Iraq (ma di qui a dire che sia un pacifista…).

Tuttavia – se anche fosse – egli agisce comunque dentro i circuiti e le logiche dello stesso sistema che causa i problemi che egli vorrebbe risolvere. Di conseguenza – sul lungo periodo (magari in attesa che la crisi passi, l’immagine internazionale degli USA si risollevi, e possa tornare a insediarsi un capo di Stato più degnamente crociato dell’”American Manifest Destiny”) — le sue politiche saranno di fatto funzionali al mantenimento ed al rafforzamento di quello stesso sistema (nel suo farsi storicamente – appunto – in maniera sistematica, cioè spersonalizzata), in una fase di sua recessione.

Quindi sarà interessante vedere quanto la “svolta-Obama” aggiungerà al dominio statunitense, in termini di longevità, in un momento in cui da più parti ne è stata Cinapreannunciato il declino, a favore di altre potenze emergenti sullo scenario mondiale, come l’Iran, la Russia o l’India, ma soprattutto la Cina.

Perché sarà anche vero che Cina e India stanno crescendo a vista d’occhio, forti da sole di un terzo e forse più della popolazione del pianeta, e che a quanto pare il debito pubblico americano è in mano agli stessi cinesi. Che l’impero russo si sta risollevando dalla fine del comunismo in continuità col non volersi far dettare legge dagli Stati Uniti, e che l’Iran della repubblica islamica e della bomba atomica potrebbe essere un buon canalizzatore delle tensioni di rivalsa espresse quotidianamente dal mondo arabo così detto “non moderato”.

Ma fino a prova contraria gli “states” mantengono ancora ben salde le leadership tecnologiche e militari, le quali fino a questo momento si sono rivelate essere quelle decisive per avere la leadership complessiva in un sistema capitalista. Insomma: chi vivrà vedrà.

Certo, a margine di tutto ciò irrompono fenomeni di ribellione importanti e significativi. Dalla rivolta nelle banlieue e al movimento degli studenti francesi del 2006 contro la precarizzazione del primo contratto di lavoro, a quello dei “pinguini” (studenti medi) cileni sotto il governo della “femminista socialista democratica” Bachelet, passando per la rivolta dei giovani in Grecia dello scorso anno. Dalle lotte degli immigrati in un Italia sempre più porto di un’Europa “assediata” dalla disperazione, a quelle dei contadini e degli operai e minatori cinesi contro il peggior apparato burocratico del Mondo. Dall’Intifada mai doma del popolo palestinese, rinchiuso da sessant’anni nel campo di concentramento a cielo aperto della democrazia, al <<Que se vayan todos>> dell’Argentina della bancarotta di Stato, insorgenza di un Sudamerica complessivamente troppo “perso di vista” dai fratelli maggiori del Nord.

Ma più di tutti, è stata forse la fiammata pacifista mondiale (sulla scia della linea Pacifismoabbozzata dal genuino movimento no-global degli esordi) in risposta all’intervento militare in Iraq da parte degli Stati Uniti, ad indicarci la via del cambiamento che dovranno intraprendere d’ora in avanti le mobilitazioni e le lotte che vogliano aprire una prospettiva di liberazione rivoluzionaria da questo sistema. Un sistema ormai irrevocabilmente globale; e quel movimento che per primo – forse in tutta la storia – ha saputo, seppur in maniera ancora solo embrionale, coordinarsi a livello planetario, ci ha detto – che ne sia stato consapevole o meno – che deve e può essere solo ed esclusivamente globale, la prospettiva nella quale deve sapersi costruire oggi un qualsiasi fenomeno sociale e di pensiero che punti ad una trasformazione rivoluzionaria della vita e della società. Benvenuti nell’era dell’ottimismo.

Edoardo

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