Libero brainstorming collettivo sui fatti di Roma (già pubblicato il 16/10/11 su cusa.splinder.com)

In merito agli scontri di ieri vorrei provare a mettere in evidenza una modalità d’interpretazione non strumentale e strumentalizzabile degli scontri.

Prima di tutto la violenza non nasce nel vuoto e si potrebbe quasi dire che non nasce affatto, è costantemente presente nel sottofondo delle nostre esistenze quotidiane. Il fatto che a un certo punto si spacchino le vetrine o si dia fuoco a un blindato non significa affatto che si tratti di ‘delinquenti’ o di ‘teste calde’, black blok e total black che sono, ed è del tutto evidente, sigle vuote, formule dell’acqua calda.  C’è gente che non ha strumenti e modalità efficaci, tanto quanto lo è la violenza, per opporsi a un sistema di vita fagocitante quale quello in cui siamo inseriti e contro il quale non abbiamo alcun potere. La violenza, triste o deludente che sia, rimane ancora nel 2011 l’unico strumento di comunicazione dell’incomunicabile dolore di vivere come siamo costretti, ci constringiamo, ci costringono a vivere. Le sfumature non hanno definibilità ovvie, bisogna solo coglierle. La vetrina rotta di una banca non è la vetrina rotta al ciabattino sotto casa mia. La casa incendiata del mio vicino non è l’ex caserma dei carabinieri. Non c’è tempo, nello scontro, di pensare ai simboli, agli immaginari, si agisce perchè le mani sono vuote, e prudono di rabbia incontenibile. Non condanno, ma non c’è nulla da approvare perchè la violenza non è qualcosa che si sceglie, o quantomeno si può scegliere di non affermarla quando a monte del suo esistere ed esplicitarsi c’è un lavoro di creazione, degli strumenti atti a com-prenderla, affrontarla, vanificarla. Per cui, cosa condannare? e soprattutto in nome di cosa?

Ma non si vergognano los indignados di scendere in piazza a gridare valori vuoti contro il nulla dei media che avanza sempre di più, loro il cui fine pare quello di farsi le fotografie da mettere su facebook perchè sia detto che pure loro c’erano, e pure loro hanno varcato il rito di passaggio della ‘lotta’ come i loro panciuti padri sessantottini, non si vergognano tutti quelli che vanno alle manifestazioni con lo stesso spirito con cui mia nonna andava alla processione del santo del paese, non si vergognano quelli che s’inorridiscono della violenza esplicita quando il mondo che costruiscono per noi nei loro parlamenti trasuda la violenza implicita delle cose mai chiamate con il loro nome?

ci fottono su tutto,

ma non sull’azione, dato che in alcuni momenti (un presidente del consiglio che non si dimetterà mai nonostante ciò che tutti sanno e strasanno) è proprio la violenza a sembrare l’unica cosa ‘reale’.

per cui non condanno ma non c’è niente da approvare perchè la violenza non ha mai risolto nulla, ed è certamente una parentesi che deve chiudersi ed esistere se è già esistita. infondo scrivo il giorno dopo il già accaduto.

ci fa orrore l’esplicito,

ma non viene dal nulla, non è nulla.

per cui, non m’inorgoglisco della violenza (forse davvero altrettanto borghese, m’insegnava un mio compagno di blog, del legalismo) ma nemmeno me la sento di bollare il mal-essere come delinquenza.
la delinquenza è piuttosto un effetto che una causa.

quel mal-essere, quella distruzione, ha la sua storia.

e deve necessariamente essere raccontata.

lasciamo inorridire i preti, i cultori del laicismo religioso e della democrazia sacralizzata. scaviamo, cazzo, scaviamo sotto la scorza di questi servizi televisivi ansiosi solo di sbattere il mostro in prima pagina (che poi basterebbe si facessero una bella fotografia di gruppo tra di loro) , e restituiamo alle persone non più solo l’evento ma la sua storia, le sue ragioni implicite, i suoi dolori più profondi. 

(carmen voita)

 

Penso che dobbiamo fare attenzione a non fare “di tutt’erba un fascio”, né fra quelli che i media hanno definito “manifestanti pacifici” né fra quelli che hanno definito “i violenti”. La strumentalizzazione mediatica dopo la manifestazione di sabato è stata – al solito – squallida e manichea, almeno quanto le dichiarazioni a caldo di tutti i politicanti di turno, pronti a fare blocco compatto e addirittura a venire incontro (ovviamente e strategicamente a posteriori) alle ragioni della protesta – da Draghi fino a Vendola e da Vendola fino a Draghi – pur di addomesticare la rabbia che esplode a grappoli sotto questa crisi senza fondo, e la radicalità che da essa si può sprigionare.

Per quanto riguarda gli scontri, penso si debba fare distinzione fra disperazione/esasperazione, e strategia. In piazza S. Giovanni – per quel che ho potuto vedere e per quel che mi hanno suggerito fin qui le mie esperienze passate – penso ci fosse anche tantissima di quella rabbia mista ad impotenza che cova nelle nuove generazioni (ma non solo: a detta di alcuni compagni, negli scontri c’erano anche dei 40/50enni) come magma pronto ad eruttare. Quella rabbia – concordo con Carmen – non va condannata né demonizzata come preti.

Ma in prima fila contro le cariche della polizia e nei roghi di blindati, SUV e auto più o meno ricche ed ex-caserme, credo ci fossero anche delle strategie – individuali o di gruppo – più o meno volute.

Di fronte a tutto ciò non mi faccio alcun problema di tipo moralista. La questione che mi pongo non è neanche tanto <<E’ giusto o meno quello che hanno fatto?>>; quanto piuttosto: <<Avrei fatto o meno la stessa cosa?>>. E dopo essere stato in corteo e in p.za S. Giovanni, mi sono risposto di no.

La ragione di fondo è questa: il tipo di strategia sviluppata dai singoli e dai gruppi che hanno preannunciato “l’insurrezione” (vedi post su Indymediahttp://italy.indymedia.org/node/864), e in qualche modo preparato possibili scontri di piazza, è una strategia sul lungo periodo inevitabilmente minoritaria, e tale si è dimostrata di essere anche sabato scorso.

Solo una (sempre più) ristretta élite è infatti in grado di dirigere sul (sempre più) lungo periodo uno scontro di tipo frontale (più o meno difensivo che sia) con le forze dell’ordine. Per farlo bisogna infatti essere grossi, cazzuti, armati di caschi e scudi, molotov o bombe carta, ma soprattutto bisogna essere (sempre più) organizzativamente branchizzati e/o militarizzati.

Per di più a monte di tutto ciò c’è il dato di fatto che per quanto grosso, cazzuto, armato e branco-militarizzato tu possa essere, lo Stato arriva a disporre di un vero e proprio esercito regolare con tanto di aviazione ed artiglieria pesante che nei casi più estremi non si fa eccessivi problemi ad utilizzare (vedi la storia di tutte le guerre civili, vedi la recente vicenda libica).

Questa strategia è dunque solitamente destinata a due tipi principali di sbocchi, apparentemente diametralmente opposti ma essenzialmente speculari: 1) Resistere qualche ora (o al massimo qualche giorno) nutrendosi anche dell’ingenuità e della disperazione soprattutto di molti giovani/giovanissimi (che poi spesso sono i primi a rimetterci la pelle, com’è successo anche a Genova nel 2001) per poi barcamenarsi fra denunce, perquisizioni, arresti, ossa rotte e teste spaccate, mistificazioni mediatiche e infangamento o strumentalizzazione dei contenuti e delle ragioni della lotta (com’è successo a Roma sabato scorso). 2) Confidare nell’intervento di un potere che capovolga i rapporti di forza a favore degli insorti, potere che per essere tale deve gioco forza essere più concentrato, militarizzato, grosso brutto e cattivo di quello inizialmente osteggiato (com’è successo in Libia con l’intervento militare della NATO).

Sullo stesso post di Indymedia e sulle bocche di molti già quando sono arrivato al corteo, girava la voce che i più arditi avrebbero preso una piazza (verosimilmente già p.za S. Giovanni) per farne una nuova Tahrir. Ma il successo – sia pur criticabile nei contenuti e nelle rivendicazioni del dopo Mubarak – dei manifestanti egiziani credo sia stato dovuto proprio al fatto di aver saputo costruire un conflitto non frontale con le forze armate del regime, tendenzialmente non violento e quindi molto più accessibile, diffuso e duraturo, ma non per questo meno rabbioso, forte, determinato, consapevole, anzi:http://it.peacereporter.net/articolo/26844/Egitto%2C+il+giorno+dopo

Ed è sempre stato proprio questo ciò che i rivoluzionari non violenti hanno sostenuto in favore del loro tipo di approccio, piuttosto che di quello di derivazione ottocentesca che vede nella violenza un aspetto fondamentale di qualsiasi vittoria rivoluzionaria o insurrezionale: i mezzi e le strategie di lotta non violenta, se anche possono ottenere nell’immediato esiti apparentemente meno pieni e sovversivi di quelli violenti/armati, in realtà ne ottengono di più duraturi e radicali sul lungo periodo.

La violenza in sé per sé non si indirizza tanto al raggiungimento di un determinato obbiettivo, quanto ad ottenerlo in tempi immediati.

Sicuramente anche in quest’ottica possono porsi dei problemi di legittima difesa e in ogni caso ci sono situazioni in cui l’uso della forza (fino ad arrivare a quella armata) può rivelarsi indispensabile. Sotto l’occupazione nazista non potevi andare in piazza con le mani alzate e durante la guerra civile Spagnola non c’erano molte alternative fra l’andare al fronte o l’essere massacrato, se avevi anche solo difeso una qualsiasi delle forze antifasciste.
Ma questo problema e gli altri che di conseguenza ne derivano dovrebbero porsi solo come corollari di un approccio di tipo non violento e della maggiore espansività ed orizzontalità che esso consente.

Gli stessi indignados – che vanno anch’essi sicuramente criticati dal punto di vista dei contenuti e delle rivendicazioni, ingenuamente riformistiche, democratiche e forse anche un po’ buoniste – hanno però dimostrato di poter tenere una piazza per molto più tempo, influendo così più profondamente sia sulle coscienze che sui poteri reali.

In Italia, dove da dopo gli anni ’70 si rincorrono replicandosi all’infinito le due logiche speculari degli scontri di p.za S. Giovanni e di quelli che Carmen ha giustamente definito “cortei-processione” (ovvero l’eterno binomio “partito/sindacato-chiesa e cretinismo estremista), fenomeni come la Primavera Araba o Occupy Wall Street per dire (dal punto di vista dei metodi e dell’espansione delle lotte intendo), ce li sogniamo. Men che mai sabato scorso a Roma si è visto niente del genere nel così detto “corteo pacifico” che tanto è piaciuto a media e politicanti.

Proviamo a cominciare noi allora, proviamo a farlo senza paura di radicalizzarne le lotte e le rivendicazioni. Per esempio: sabato tagliando esternamente il corteo mi sembrava che la pula, tutta intenta a presidiare le vie d’accesso ai merdosi monumenti e palazzi del merdoso potere, avesse lasciato altri margini abbastanza ampi di evasione dal percorso ufficiale previsto per il corteo. Perché la prossima volta non tentare un’invasione pacifica ma rivoluzionaria, dove possibile, del centro cittadino?
Stretta è la foglia, larga e la via,

Edo

 

Le Manifestazioni sono diventate una vetrina ove possiamo assistere alla parata dei luoghi comuni e spot pseudopubblicitari, poi quando ci scappa l’atto violento iniziano la gare alle interpretazioni ipocrite da parte dei detentori del potere mediatico e sociale

Lo scendere in piazza e far capire quello che si prova è un atto che ha ancora significato ma i mezzi su come ottenere ascolto vanno decisamente rinnovati.

Usando la violenza come schema di giudizio si arriva a confondere quello che è prioritario e quello che non lo è. Io vivo in prima persona la situazione di precariato quindi posso comprendere lo stato d’animo di chi ha dentro solo sdegno e insoddisfazione ogni giorno montante come se fosse un pugile in un ring con se stesso.

Come dice caparezza nella canzone la fitta sassaiola dell’ingiuria “mi piace sapermi diverso, piacere perverso che riverso in versi” mi sembra frase assai significativa.

Il nostro sguardo volge verso la massa oceanica di manifestanti, potremmo esserci anche noi li in mezzo no?

Come Umanisti Anarchici riteniamo necessaria un analisi approfondita della situazione, ma come ho descritto negli articoli analisi del modo di vivere nel sistema capitalista siam tutti burattini legati al filo dell’indifferenza,che ne dite utenti di stracciare tutti insieme questi fili e volare liberi verso il cielo della consapevolezza?si ha la percezione che il capitalismo stia crollando? Niente paura iniziamo con le nostre idee, diverse uniche, magnifiche, mandando riccamente a quel paese ben pensanti intellettualoidi ospiti fissi di squallide trasmissioni televisive. Citando de andrè “si sa che la gente da buoni consigli sentendosi come gesù nel tempio, si sa che la gente da buoni consigli quando non puo’ più dare cattivo esempio”. Innalzate i vostri animi nella certezza che è arrivato il momento di poter creare con le nostre mani un mondo che nel nostro io interiore abbiamo sempre sognato. Noi usiamo i mezzi che abbiamo, voi usate i vostri gustandovi il piacere unico di entrare nella storia e della creazione del buono

 

Vostro umile, semplice,sintetico Francesco

 

In primis, evitiamo una lettura dualistica della manifestazione del 15 ottobre a Roma. Le interpretazioni in stile bianco/nero non sono utili nell’analisi dei fenomeni.  Tantomeno di quelli sociali, dove l’uomo, variabile infinita e indefinita, è protagonista.

Peccato. Un vero peccato che tutta la sana e giusta rabbia di un paese ormai conscio del baratro che è innanzi a lui, scivoli via in percorsi e pratiche dalla scarsa incidenza ed efficacia. Fastidioso che finisca anzi, in alcuni casi, per creare più spaccature che unità in un movimento giovanissimo e fragile. Minandone così alle origini la maturazione, le possibilità di ampliamento e di partecipazione popolare e scoprendo il fianco alla repressione delle autorità. (non c’è voluto molto vero? Quasi a far pensare che non stessero aspettando altro. Del resto, da Pearl Harbour a Cossiga, la storia della strategia repressiva è abbastanza nota.. Chissà.). Di pessimo gusto poi l’uso mediatico che ne è stato fatto, riproponendo la solita brodaglia fotografica-narrativa dei cattivoni, corredata di identikit e presunte richieste di delazione. Ma chi non se lo sarebbe aspettato? Del resto un giornalismo italiano in picchiata nelle vendite e in-credibilità, non può che riciclare le sue vecchie formule per cercare di rigenerarsi…puah.

Da un lato, come altri hanno scritto sul blog, ritengo utile, doveroso e sensibile, approfondire le radici di questa violenza. Comprenderle e cercare, se possibile, di trasformarle in qualcosa che permetta alle persone che l’hanno espressa di poterla vivere meglio, perché quella rabbia lì, fucina di potenziali violenze, uccide giorno dopo giorno, macerando le persone dall’interno . E mi chiedo:  chi è oggi in grado di capire, trasformare e utilizzare questa rabbia, un tempo incanalata in percorsi rivoluzionari? Quali sono gli organismi e le realtà in grado di farlo? Come liberare queste persone da sto cazzo di peso interiore?

Tuttavia non voglio soffermarmi troppo sul capitolo violenza, seppur pantagruelico e interessante, perché voglio dare spazio ad altre considerazioni senza diventare fastidiosamente prolisso. [nota particolare. Il tema della nonviolenza credo che sarà, in riferimento alle modalità di lotta future, uno dei maggiori punti di scontro tra i movimenti, non solamente quelli anarchici e libertari. Viste le ultime manifestazioni, non credete pure voi lo stesso?]

Penso ad esempio, che c’è da incazzarsi con noi stessi, per ben altri motivi.
Io non sono un esperto di lotte sociali etc, ma possibile che non siamo più in grado di inventare paradigmi alternativi di lotta? Com’ è possibile che da tempo a questa parte le uniche idee che arrivano dai movimenti “in prima linea” sono quelle di occupare, ed eventualmente scontrarsi con chi si frappone tra i manifestanti e il loro obiettivo? Lungi da me criticare questa prospettiva, che a mio avviso ha ancora il suo valore. Il problema  è che da tempo a questa parte, mi sembra l’idea totalitaria e totalizzante della pratica politica di piazza. Se così fosse, limiterebbe il pensiero stesso dell’azione di piazza e delle sue possibili pratiche di contestazione e disobbedienza. No?  Hanno ancora senso gli obiettivi di un tempo? E ancora, quanto senso ha in una società complessa e inesistente(si pensi alla finanza) come quella occidentale, bruciare una banca (che magari è assicurata quindi riceve soldi..) o lanciare merda addosso al parlamento (questa è un’idea da realizzare con un aereo…haha.)? Oltre l’aspetto simbolico possiamo ottenere altro da una manifestazione nazionale di un giorno? Non è riduttiva una progettualità politica che punti solamente a “colpire e occupare i simboli del potere”, oppure al contrario è il massimo che si può fare in questi casi? Ottenendo visibilità, e creando un modo altro di vedere e vivere il rapporto stato-cittadini (anzi, persone).

La domanda, credo che ne apra a sua volta una moltitudine.
Come rendere più incisive le azioni portate avanti dai vari soggetti sociali in stato d’agitazione contro la crisi, politica, economica e perché no culturale, di turno. Tutelandone al contempo le differenze peculiari, che dovrebbero essere punti di forza e non di scontro, come accade talvolta.
Forse la manifestazione nazionale di piazza è (diventato)uno spazioristretto per e dell’ azione politica. In questo caso abbiamo bisogno di percorsi e pratiche complementari ad e in esso, pena il riemergere di forme di lotta anacronistiche e tendenzialmente inutili..

To be continued..

William Dostoevskij

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