Oltre il gesto femminista (già pubblicato il 27/08/11 su cusa.splinder.com)

Provo a scrivere qualcosa di cui m’importa un bel po’. Qualcosa che fa parte di ogni singola decisione, gesto o scelta del mio presente storico. La mia fica. Eh… già. Il condizionamento culturale e sociale derivato dall’essere nata col gene più anarchico che esista (XX ma anche il finale di genere nella lingua italiana ‘A’ ppunto…) è tale da dover affrontare in questa sede ‘umanista’ e ‘anarchica’ l’atroce questione: donna? senti un po’ ma il femminismo…? Uno degli stessi compagni di blog infatti (qualuno di cui non rivelerò il nome) ha inquadrato la mia presenza, nel suddetto spazio, prima di tutto come ‘presenza femminile-ista-ea’ atta a inaugurare un punto di vista femminilisteo sulle questioni che qui si sceglie di affrontare. Ovviamente, mi lusinga questo genere di ‘apertura’ ma quella che pure è una porta, segnala, a ben vedere, anche la presenza del muro che la fa esistere. Esco subito fuor di metafora citando un autore che considero uno dei pochi sociologi ‘ascoltabili’ degli ultimi vent’anni e cioè Pierre Bourdieu. In uno dei suoi scritti più odiati dalle femministe della prima ora (forse perchè non letto con le dovute attenzioni data la densità dell’argomento e i puerili livori lesbo-amazzonici) che s’intitola ‘Il dominio maschile’, l’autore sottolinea come tale questione – il domino maschile – non concerne tanto il cercarne una causa biologico-cognitiva giustificativa quanto piuttosto il nesso esistente tra ‘differenze sessuali’ e ‘dominio maschile-sottomissione femminile’. Nonostante molti antropologi e antropologhe, nel trattare l’argomento, cadano in uno stato catatonico di bongobonghismo (ossia annoverare a mò di eccezione alla regola o bieco relativismo tout cour quella data tribù sperduta o quel dato gruppo estremista della Terra del fuoco per negare salutari forme di comparativismo non forzato ma dettato dalle contingenze dall’analisi) se si guarda alle condizioni della donna, sia nella linea verticale del tempo che in quella orizzontale della geografia, ci accorgeremo che tale coordinata dominante-dominato, dettata dalla presenza o meno del pene all’altezza del basso ventre, è pressocchè rintracciabile ovunque e comunque.

Bourdieu, a chi interessasse l’argomento, fornisce anche dati empirici molto più rilevanti delle mie sole chiacchiere. Si accorge infatti che la situazione di dominio non è legata di per sé alle pratiche di vita dovute alle differenze sessuali (la cura della prole e l’agricoltura risultano più comode per i cicli fisiologici del corpo femminile rispetto alla caccia o al commercio o alla costruzione delle case) ma al fatto che tali comodità diventano ‘norme innate’ assunte a regola imprescindibile dell’ordinamento sociale. in realtà fuori dal periodo della gravidanza e dell’allattamento non esistono vincoli naturali che impediscano  alle donne di occuparsi di caccia, commercio e quant’altro. Niente ci indica seriamente che esse non possano acquisirne le abilità se non determinate norme consuetudinarie non biologiche dunque. La scarsa abilità femminile in certi mestieri, si sa, è dovuta allo scarso esercizio nel tempo, all’inesistenza di un background forte e determinante come quello maschile su dati ambiti (letterario, scentifico, artigiano ecc.). Se questo genere di ragione è infatti ben inseribile nei nostri schemi di pensiero teorico, ben diversa è la loro attuazione nella pratica. Il problema è infatti l’inserimento della differenza sessuale dentro l’ordine cosmologico ‘naturale’ di altre categorie di pensiero dualista: il sotto e il sopra, il vicino e il lontano, il caldo e il freddo… Inserendo anche la categoria maschio-femmina dentro l’elenco appena fatto abbiamo creato una mappa percettiva del mondo, atta a radicarsi, come è accaduto, nella storia delle umanità. Come tutte le ‘mappe’ infatti anche questo ennesimo posizionamento dei corpi (è proprio il caso di dirlo) permette la rintracciabilità e il confinamento nei ruoli imposti dall’ordine ‘dato’ solo perchè già presente alla nostra nascita e autoperpetuantesi autonomamente nelle istituzioni quali, per noi europei ad esempio, il sistema educativo o la chiesa. Se la dicitura ‘donna’ allo stesso modo di ‘profano’, ‘sotto’, ‘caldo’ ecc ecc si dota di caratteri imprescindibili e contrari alle loro rispettive metà (uomo, sacro, sopra, freddo ecc ecc) ciò contribuisce a creare arbitrariamente modalità di scarto o di inserimento dei tratti distintivi di quella categoria. A ‘naturalizzarli’ insomma è proprio il fatto stesso di essere parte di quell’ordine del mondo in maniera inequivocabile. È questa strategia di inserimento categoriale che non solo è naturalizzata essa stessa come ‘strategia’ (se ne sarebbe potuta scegliere un’altra…) ma fa essere il ‘dominio maschile’ ciò che esso è. Da qui è molto facile fare della differenza anatomica una differenza di compiti, di vedute, di gesti, di atteggiamenti, di cura o di incuria. È molto facile stabilire cosa è donna e cosa non lo è, e percorrere cosa è donna come un programma sociale prestabilito e vincente. Tuttavia diffido molto anche dai programmi, altrettanto prestabiliti e troppo speculari a quelli del dominio, di dimostrazione – puramente ostensoria ed ostentativa – di ciò che è essere ‘contro’ tutto questo, e dunque femminista. Mi spiego meglio. Il difetto perenne delle buone idee è spesso quello di essere convertite in banali slogan ed ideologie legaliste perchè meglio spendibili nell’immediato. Questo è precisamente ciò che è accaduto alla prime buone idee del movimento femminista italiano come la legge di interruzione di gravidanze indesiderate o del divorzio. A ben vedere tali buone idee hanno perduto molto nell’essere presentate non come buone idee e basta, ma come il frutto di un alacre e unica ingegneria femminista. Spesso le simpatiche femministe degli anni settanta, con cui mi capita di discorrere, sgranano gli occhi di fronte all’assenza di devozione per la loro causa da parte mia e smettono di ascoltarmi sul nodo della questione più importante che è quello seguente: Perchè far passare dei provvedimenti fondanti come ‘femministi’ e non come ‘umanisti’? D’accordo, erano altri tempi, c’era la chiesa e leggi penose sullo status delle donne seppellite dal tetto coniugale… Ma ciò non toglie che proprio perchè la differenza tra maschi e femmine è puramente anatomica – quale è in definitiva – tali ostentazioni di genere siano assolutamente controproducenti – soprattutto adesso, a quarant’anni dagli zoccoli olandesi e gonne primavera – ad ogni emancipazione reale di un gruppo umano. La ‘violenza simbolica’ che attanaglia i corpi con catene invisibili è dunque anche questo tentativo di ‘slegame’ laddove ci rende più forti accorgerci del legame sottostante. Come dire, siamo prima di tutto esseri umani e poi femmine o maschi. Tuttavia il problema è gravido di asterischi e di belle e rotonde pance di punti interrogativi incinti. Perchè la socializzazione del biologico ha permesso ai dominati di attendere la dominazione tanto quanto ai dominanti di attendere a loro volta allo stesso compito? Non possiamo sentirci più di tanto in colpa se da maschi ossessionati dalla quantità di corpi femminili non riusciamo a fermarci su quello unico e imperfetto della nostra amante di turno, né tantomeno possiamo sentirci in colpa se diamo dell’incapace finocchio al nostro partner che non ci fa ‘venire’ tanto quanto ‘vengono’ le dive del porno. Non è poi così facile adottare nella pratica certe consapevolezze teoriche se la cosmologia you porn alimenta un tipo di immaginario, che alimenta un dato tipo di richieste sessuali, che alimenta un dato tipo di mercato sessuale e via di seguito… Purtroppo tutto questo non è una piramide o una montagna da scalare fino alla causa ultima di tutto, ma è un triste e sterile ‘circolo’ che procede col pilota automatico. Rintracciarne le cause primigenie, anche storiche, ci serve a ben poco se non riusciamo a dirci perchè è andata proprio così, o almeno, che razza di meccanismo c’è sotto? È vero che la percezione del corpo femminile come ‘cosa’ e come luogo di dipendenza fisico dal pensiero maschile è più radicata e visibile ma ciò non significa che i maschi non siano a loro volta dominati dalle categorie in cui devono assolutamente rientrare per essere considerati tali. A ben vedere, anche la posizione maschile non è affatto comoda, né desiderabile.

Il discorso di Bourdieu non è così astratto come può apparire a primo acchito giacchè prende in esame per filo e per segno le istituzioni deputate alla creazione delle disposizioni legate al proprio sesso di nascita e al ‘destino personale’ che, anche grazie ad esso, ci attende. Un mio personale ricordo è quello del frate che ci faceva catechismo in un antro buio del convento, in tenera età – quando sarebbe stato molto meglio ed utile imparare a saltare le staccionate e ad arrampicarsi sugli alberi – che ci diceva, a noi sprovvedute bambine già troppo ammaestrate delle lascivie umane, che il peccato, quando un uomo aveva pensieri impuri sul nostro culetto, era prima di tutto nel nostro ancheggiare atto a tale risultato.

Un piccolo inciso: mi interessava mettere a fuoco con Bourdieu il problema della ruolistica di genere in termini di dominazione ecco perchè pur non ignorando affatto le problematiche di genere riguardanti gli emancipazionismi gay a cui assistiamo e che rientrano in pieno, almeno nel loro gusto fenomenologico, nell’analisi delle cosmologia consumista di diritti legati al genere, non ho ritenuto opportuno soffermarmici in questa sede.

Strategie naturalizzate, disposizioni perpetuate istituzionalmente, immaginari consumisti del corpo… insomma non c’è alcuna soluzione?

Non so se la soluzione c’è, io dal canto mio ho smesso di ascoltare i vuoti lamenti di alcune compagne che si perdono il piacere di ‘donare’ un gesto amoroso a chi gli sta accanto – come preparare il pranzo per tutti o togliere le scarpe al proprio amante dopo una dura giornata passata a scarrozzarci in giro – perchè in apparenza servili segnali di quel ‘dominio’ di cui fin qui si è parlato. Ho notato che di solito, chi si preoccupa tanto del significato di un gesto come questi non solo non riesce a coglierne l’allegria, la gioisità e anche l’innocenza ma crede che basti solo non attenderli per  scongiurare il senso complessivo del dominio-sottimissione del genere a cui si appartiene. In realtà ho paura che ciò non annulli affatto la ruolisitca dominati-dominanti ma anzi ci conduca dritti dritti alla perdita del gesto altruista a scapito di quello sterile dell’ideologia. Personalmente adoro il mio caffè e l’atto di prepararlo mi piace così tanto da non provare alcuna noia nel ripeterlo non solo quando qualcuno viene a visitarmi ma quando sono io stessa in visita. Ciò mi rende schiava del ruolo di angelo del focolare in cui era confinata mia madre? Non credo proprio… Sarebbe molto più frustrante negarmi un gesto pratico e piacevole solo per ciò che rappresenta. E se cominciassimo a riappropriarci dei gesti oltre le apparenze? Se cominciasse ad essere superfluo il gesto femminista?

Se la soluzione c’è è nel venire a capo dell’esistenza pratica di quel circolo generativo delle disposizioni e delle strategie naturalizzate al proprio genere provando a ostentare di meno ciò che si vorrebbe essere e cercare di più ciò che si è già. Per caso una femmina. Per caso un maschio.

 

Carmen Voita

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