Strumenti analitici per uno studio dei movimenti sociali (di Stefano Boni)

TESTO DI RIFERIMENTO PER IL DIBATTITO DEL 6 OTTOBRE 2013, ALLA 6^A VETRINA DELL’EDITORIA ANARCHICA E LIBERTARIA SU “TRASCENDENZA DELLE ISTITUZIONI POLITICHE, NUOVI DISPOSITIVI DI POTERE E MOVIMENTI SOCIALI EMERGENTI”.

L’attenzione crescente che le scienze umane stanno dedicando ai movimenti sociali riconosce e riflette un cambiamento in corso nelle forme di partecipazione politica. La novità non risiede tanto nell’emergere di movimenti sociali, intesi come soggetti collettivi non facenti parte di istituzioni politiche legittimate dalla legge e dai mass media, che si attivano per informare e/o intervenire su temi di interesse pubblico, tanto quelli minuti e localizzati quanto quelli riconosciuti come cruciali e globali. Ogni potere istituzionalizzato ha generato qualche forma di risposta popolare autogestita (Scott 2009). La novità dei movimenti sociali contemporanei è nella capacità di mettere a nudo, nella loro drammaticità, le crisi della democrazia elettorale.

1. Resistenza, movimenti, rivoluzione

Con l’affermazione delle democrazie rappresentative, le eruzioni di autogestione popolare, che hanno caratterizzato la conflittualità di classe e antistatale nella Europa moderna e contemporanea e nelle colonie, vengono viste da scienziati sociali e politici di sinistra come arcaiche, primitive, immature. Nella visione degli intellettuali marxisti del secondo dopoguerra, il popolo per entrare nella modernità doveva “organizzare” le sue proteste ma, essendo incapace di farlo, era indispensabile che a dirigere la lotta fosse chiamata una avanguardia dotata del necessario sapere politico per condurre la massa inconsapevole alla rivoluzione. La prospettiva rivoluzionaria è esemplificata dal lavoro di Hobsbawm (1959: 10) che stigmatizza le ribellioni rurali spontanee, anarcoidi e “primitive”:

Noi sosteniamo che, finché il fenomeno sia lasciato nelle mani degli stessi contadini, il processo di modernizzazione non si verifica affatto o si verifica solo con molta lentezza e in maniera incompleta; si verifica invece in modo più completo e di maggior successo se il movimento millenaristico venga inserito in schemi organizzativi, in una teoria e in un programma che arrivino ai contadini dall’esterno.

Oggi la prospettiva rivoluzionaria, che aveva caratterizzato le scienze politiche e le coscienze nella seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento associata quasi invariabilmente al comunismo, si è esaurita. Lo smascheramento delle ipocrisie dei regimi marxisti e l’affermazione globale del capitalismo ha generato il tramonto della prospettiva rivoluzionaria: la storia ha mostrato che la fede nella bontà della modernità e dell’avanguardia era mal riposta (Graber 2002; Boni 2010). L’abbandono dell’ambizione di prendere possesso del governo con la forza non significa che la volontà popolare si esaurisca necessariamente in resistenze individuali e minute, esaltate dagli studi degli anni Ottanta in maniera spesso romantica, esagerandone il potenziale sovversivo e la coscienza politica di chi le metteva in pratica (Comaroff 1985; Scott 1985, 1990; Abu-Lughod 1990). Esistono come hanno notato Fox e Starn (1997: 2) “forme intermedie di mobilitazione… il terreno tra la rivoluzione di massa e le resistenze di piccola scala”. I movimenti sociali si collocano tra le sovversioni esili, segrete, personali e la rivoluzione intesa come sollevazione collettiva finalizzata ad un ribaltamento immediato dell’ordine politico. Oggi, in maniera sempre più marcata, l’attivismo politico popolare assume la forma, più modesta ma spesso anche più consapevole, del movimento sociale con rivendicazioni più limitate, legate a problemi specifici.

Premesso che le definizioni sono convenzioni che vanno giudicate per quanto offrono alla capacità di analisi, definisco i movimenti sociali forme di attivismo politico conflittuale, collocato al di fuori dei prestabiliti canali istituzionali (partiti e amministrazioni) ed espresso da reti informali di soggetti individuali e collettivi. La restante parte di questo contributo è finalizzata a caratterizzare in maniera più precisa alcuni tratti dei movimenti degli ultimi decenni che hanno preso forma nelle diverse parti del pianeta mostrando tendenze comuni. Sono costituiti da reti di persone, liberate dalle certezze del paradigma marxista e dalla convinzione che un governo rivoluzionario avrebbe condotto il popolo verso la felicità eterna. Si strutturano in forme cangianti, inclusive e imprevedibili, espressioni organiche di una società civile in divenire. I movimenti si nutrono di connessioni flessibili: possono comprendere associazioni ma le travalicano coinvolgendo gruppi informali, sindacati, intere comunità, singoli (Abelmann 1997; Edelman 1999; Graeber 2009). Sempre più i movimenti sono privi, almeno nella loro fase iniziale, di organi centralizzati e di dottrine escludenti. Non mirano a prendere il potere ma a condizionarne la distribuzione riaffermando l’importanza della volontà popolare su quella istituzionale (Holloway 2002).

E’ possibile differenziare per macro-aree geografiche la forza dei movimenti sociali. In Occidente negli ultimi decenni ha prevalso, nonostante qualche eccezione rilevante, una certa inconsistenza e inconcludenza dei movimenti. In America Latina la tradizione di attivismo politico popolare ha preservato la sua intensità assumendo forme organizzative innovative. Perché in certe nazioni si sviluppano movimenti sociali che riescono ad avere un peso notevole nell’equilibrio politico e in altri contesti sono limitati al ruolo di protesta sostanzialmente ininfluente? Questa domanda conduce necessariamente a discutere delle premesse sociali e degli strumenti adottati dai movimenti.

2. Le premesse: un disagio, una comunità, una assemblea, una volontà

La prima premessa per l’emergere dei movimenti sociali è il disagio per l’esercizio del potere delle istituzioni politiche legittime. Insoddisfazione e quindi dissenso: i movimenti sociali hanno una dimensione principalmente oppositiva, contrastare il pensiero, la prassi, le politiche, le tecniche, l’ideologia dominante. Le ragioni per opporsi a disegni istituzionali possono essere le più varie. Un elenco incompleto comprende: la richiesta di interventi per rendere più equa la distribuzione della proprietà agricola e per la salvaguardia del lavoro contadino (Pérez-Vitoria 2005); istanze per la verità e la giustizia; la salvaguardia del lavoro e del salario; la difesa di servizi pubblici minacciati (Albro 2005; Esteva 2008); l’affermazione della dignità di ogni orientamento sessuale; mobilitazioni contro progetti che hanno un impatto negativo sull’ambiente quali le perforazioni petrolifere (Pepino 2009), l’estrazione di carbone, la costruzione di infrastrutture, l’introduzione di organismi geneticamente modificati; proteste contro misure legislative impopolari (Merklen 2002); la salvaguardia di territori ritenuti ‘indigeni’; la rivendicazione di diritti civili (libertà di espressione, di manifestazione); organizzazioni urbane di quartiere finalizzate ad autogestire aspetti della vita vicinale; la rivendicazione di autonomia nella amministrazione dei servizi scolastici, abitativi e sanitari (Bartolomé 1995). Non tutti i movimenti sociali sono progressisti, ecologisti e di sinistra: chi critica la politica istituzionale perché incapace di garantire la sicurezza, o partendo da preoccupazioni nazionaliste o razziste può costituirsi in movimento. In Italia di sono formati comitati per garantire la sicurezza notturna nei quartieri da pericoli più o meno immaginari e l’insoddisfazione con le politiche neoliberiste ha fatto nascere a destra un movimento, Casa Pound, dai forti toni nazionalisti. In Bolivia nel nuovo millennio si è rafforzato un movimento che evoca le dottrine totalitarie della prima metà del Novecento, la Unión Juvenil Cruceñista. Da notare che tali movimenti tendono ad assumere strutture gerarchiche e viene meno, in maniera evidente, una delle caratterizzazioni cruciali dei movimenti sociali così come li stiamo definendo: l’orizzontalità nella partecipazione.

Una seconda premessa imprenscindibile dell’attivarsi di un movimento e la presenza di comunità, un insieme di soggetti che si sentono parte di una identità e di un destino comune. L’accentramento del potere comunicativo nei mass-media, l’invasività egemonica del potere statale e lo strapotere decisionale della imprenditoria ha annichilito molteplici comunità (Bauman 2003). Queste identità, marginalizzate e stigmatizzate, cercano mediante una mobilitazione pubblica diretta, in primo luogo di affermare la propria esistenza, e in secondo luogo, se le forze lo permettono, di negoziare, contrastare, opporsi e costruire alternative (Zibechi 2008). Il senso di appartenenza unisce e crea i presupposti per una mobilitazione convergente, condivisa, efficace. Molta attenzione è stata prestata alle comunità virtuali, telematiche, ai movimenti trans-nazionali che sono proliferati, soprattutto in Occidente nel recente passato (Appadurai 1996). Questi spesso sono mobilitati via internet e compiono azioni eclatanti e ben reclamizzate dai media ma la partecipazione dei più si limita ad una semplice adesione telematica. Le comunità che riescono a generare movimenti resistenti, duraturi, partecipati, fruttuosi sono, in genere, comunità localizzate, a volte strenuamente legate ad una identità locale.

Una comunità è indispensabile per dare forza al movimento sia perché costituisce il circuito da cui attingere le risorse tecniche, artigianali, comunicative e intellettuali che servono per far avanzare la lotta; sia perché le comunità hanno embrionali forme politiche, a volte egualitarie, che possono formare lo scheletro del processo decisionale del movimento, l’assemblea. Una terza premessa del movimento è appunto la sua capacità di coinvolgimento e questo si accentua quando le soggettività percepiscono che l’azione popolare non ricalca le dinamiche, logore e corrotte, della democrazia parlamentare. E’ proprio il declino della partecipazione partitica che genera le premesse per una partecipazione ai movimenti a patto che questi non ripropongano le stesse logiche gerarchiche e poco trasparenti delle istituzioni. I movimenti si trovano spesso a dover gestire tensioni opposte: una spinta verso il mantenimento di una organizzazione orizzontale, partecipata assembleare e una tendenza a centralizzare il potere in intellettuali, retori, mediatori, esperti, tecnici (Della Porta e Diani 2006: 412-143). In genere la centralizzazione si accompagna alla istituzionalizzazione dei movimenti e fa venir meno la loro informalità, duttilità, egualitarismo.

Le tre premesse discusse sopra, in genere ne attivano una quarta, la volontà di intraprendere l’arduo cammino del conflitto con le istituzioni. Una convinzione e decisione che è imprenscindibile per riuscire a far fronte alle minacce, alle ritorsioni legali, ai tentativi seduttivi di trasformarsi in partito, alla criminalizzazione mediatica e alle violenze istituzionali. Una perseveranza che deve supplire alla mancanza di fondi con collette e lavoro volontario, alla esclusione dai mass media con l’attivazione di reti comunicative informali, alla persecuzione giudiziaria con reti di solidarietà.

3. Gli strumenti: disubbidienza civile e azione diretta

Spesso privi delle sovvenzioni, appoggi e risorse statali, i movimenti devono costruire i propri dispositivi di intervento in prima persona. Gli strumenti di azione politica vanno decisi, elaborati e implementati in base alle finalità che il movimento, in una determinata fase del suo percorso, si propone. In un’ottica movimentista le forme legali di protesta concesse dagli stati si rivelano frequentemente inefficaci, ovvero non riescono a garantire l’ottenimento degli obbiettivi che la protesta si è data. Sarebbe in effetti paradossale che uno stato concedesse legalmente mezzi per minare la propria sovranità.

Un primo, imprenscindibile strumento è la comunicazione sia interna che con potenziali alleati. La circolazione di messaggi auto-prodotti può prendere la forma di riunioni, assemblee, volantini, fogli informativi, lettere ai giornali, radio indipendenti, pagine web, petizioni, manifestazioni. La facoltà di informare è un presupposto dell’azione movimentista ma, in regimi repressivi che controllano capillarmente i flussi comunicativi mediatici, può diventare anche il principale obbiettivo. Quando il movimento non sente di avere la forza per imporre una propria volontà, può cercare di acquisire uno spazio in flussi informativi globali, mostrando in modo strumentale e più o meno amplificato la propria sofferenza, per attrarre visibilità, contatti e risorse (Koensler 2008). La gestione dell’informazione richiede di elaborare e permette di diffondere un diverso regime di verità rispetto a quello istituzionale: consente di mostrare occultamenti nella versione ufficiale, riportare l’attenzione sul disagio della popolazione e di cambiare l’impostazione concettuale delle vertenze. La comunicazione permette rivoluzioni simboliche e sovvertimenti dell’immaginario ma può avere una efficacia limitata se non viene coniugata con azioni dirette mirate ad intervenire sulla materialità.

Un secondo ambito di interventi attivato dai movimenti esprime il proprio disagio cercando di colpire le istituzioni che sono identificate come responsabili. Le prassi più marcatamente ostruttive prevedono il fermo di progetti considerati dannosi mediante il blocco stradale, l’intralcio alla prosecuzione di lavori, l’occupazione di terreni e la distruzione di macchinari (Auyero 2003). I momenti distruttivi coinvolgono spesso folle rabbiose e sfociano in saccheggi, danneggiamenti e roghi di edifici pubblici. Se questi sono gli atti che ricevono la maggiore attenzione mass-mediatica perché discreditano il movimento agli occhi dell’opinione pubblica, i movimenti hanno generato, anche strumenti costruttivi: centri culturali, marce, visite collettive, associazioni, centri produttivi, scuole, cliniche, biblioteche (Chatterjee 2004).

La volontà di offendere, ostruire e difendere ciò che si è costruito possono portare movimenti o frange di movimenti ad adottare la violenza in forma più o meno pronunciata, da attentati a vere e proprie formazioni combattenti strutturate in eserciti. In genere quando si opta per lo scontro aperto, continuato e violento con lo Stato il movimento cambia drasticamente la sua configurazione (Sergi 2009). La rivolta nel delta del fiume Niger contro i danni ecologici prodotti dagli impianti di estrazione del petrolio e la mancata redistribuzione degli utili tra le comunità residenti esemplifica questo passaggio da forme pacifiche, associative di pressione durate decenni, alla lotta armata di decine di gruppi che operano sequestri lampo e danneggiamenti agli impianti petroliferi (Pepino 2009).

Lo strumentario movimentista è quindi compreso tra la disubbidienza civile e l’azione diretta. La disubbidienza civile, sebbene possa adottare forme illegali, si muove tendenzialmente all’interno di un quadro che mira a far pressione sullo Stato e ne riconosce l’autorità. L’azione diretta invece non riconosce la sovranità statale, segue l’autonoma decisione comunitaria e la difende dalle interferenze statali (Graeber 2009: 201-211). Gli strumenti che il movimento sceglie di mettere in campo dipendono dalla linea politico-morale, dal percorso, dal momento, dagli obiettivi. Spesso i movimenti si trovano, ad un certo punto della loro esistenza, a convincersi che solo uno scontro aperto con lo Stato permetterà di fermare il disagio all’origine dell’azione movimentista.

4. I rapporti con le istituzioni politiche

Per quanto abbiamo definito i movimento sociali come un attivismo politico popolare fuori dalle istituzioni, queste mantengono una centralità indiscutibile se non altro come entità da contrastare; enti a cui presentare ricorsi, esposti, denunce; politici con cui avviare percorsi di dialogo e pressione. Il movimento talvolta finisce per costituirsi in associazione o partito proprio per assumere una forma riconosciuta nelle relazioni con le amministrazioni elette. Le mobilitazioni popolari sono caratterizzate da una continua tensione tra la tendenza a preservare l’autonomia e quella ad entrare in rapporti simbiotici (spesso di dipendenza) con le istituzioni.

Nell’ottica dei poteri istituzionali, i movimenti generano un notevole fastidio per i contenuti che propongono, gli strumenti di lotta che assumono, la forma politica che scelgono, l’alternativa che prospettano. Le mobilitazioni espongono fatti, questioni, visioni che le amministrazioni occulterebbero volentieri. Gli strumenti illegali di lotta generano molteplici imbarazzi perché mettono in crisi l’ordinaria amministrazione dei servizi che lo stato dovrebbe garantire; minacciano la sovranità dello stato e il suo monopolio della violenza legittima; prospettano modalità di lotta che se adottate sistematicamente stravolgerebbero l’assetto istituzionale. Una delle principali difficoltà che lo Stato ha nel gestire i movimenti è che le strategie politiche abituali della democrazia parlamentare (negoziazioni, compromessi, spartizioni, pressioni personali) possono non avere effetto se la mobilitazione rimane fedele ai suoi obbiettivi.

Per queste ragioni, le istituzioni politiche adottano frequentemente una combinazione tra coercizione e seduzione per svuotare la pericolosità delle mobilitazioni popolari. La risposta coercitiva, ristabilire la legge e l’ordine mediante arresti e azioni poliziesche, l’opzione più ovvia nella logica del potere costituito, rischia di avere l’effetto di rafforzare il dissenso popolare piuttosto che stemperarlo. Ai manganelli, alle prigioni, agli assassini di attivisti si affiancano quindi tecniche di cooptazione mediante l’offerta di una candidatura ai protagonisti nonché l’attivazione di relazioni clientelari con i militanti per deprimere l’adesione (Bartolomé 1998; Auyero 2006; Jácome 2007). Un’altra strada per svuotare l’impeto movimentista, implementata dai partiti di sinistra che hanno preso il potere specialmente in America Latina, spesso grazie all’appoggio di mobilitazioni popolari, è l’alleanza (Della Porta e Diani 2006 223-249). Questa può condurre settori istituzionali ad offrire appoggio politico, finanziario, organizzativo, al movimento con la speranza di convogliare consensi elettorali. In alternativa, l’appoggio ai movimenti può generare forme di democrazia popolare istituzionalizzata che possono prendere la forma del bilancio o della gestione partecipativa (Baierle 1998; Harnecker 1995; Medeiros 2001; Boni 2011). Recentemente, in forma più propagandistica che efficace, anche le amministrazioni locali occidentali hanno promosso spazi, spesso scarsamente significativi, di partecipazione sotto l’etichetta “Agenda 21” o “Nuovo Municipio”. La finalità delle istituzioni è quasi sempre quella di ricondurre l’informe e pericolosa partecipazione popolare a canoni e modalità istituzionali, legali e pacifici, in cui può essere più facilmente controllata, manipolata e neutralizzata.

Se l’istituzionalizzazione è promossa dalle forze esterne al movimento, anche le dinamiche interne alla mobilitazione popolare possono favorirla. Il successo di un movimento rischia di sclerotizzare la sua struttura e di alterare i connotati decisivi della protesta. Alla crescita di consenso, e quindi all’aumento della complessità gestionale del movimento, ci sono due risposte possibili. Primo, la salvaguardia dei principi fondativi che spesso presuppongono uguaglianza, partecipazione diffusa, forme di decisione assembleari; l’allargamento avviene a rete, con la moltiplicazione di frammenti organizzati con lo stesso peso politico. Secondo, la centralizzazione e burocratizzazione del movimento, caratterizzate dalla creazione di un organo direttivo e, spesso, della trasformazione della struttura informale in gerarchie riconosciute nella forma di associazioni o partiti politici.

5. Gli obiettivi e l’efficacia: riappropriarsi del potere decisionale

Gli obiettivi dei movimenti sociali sono molteplici. Il primo è esplicito, dichiarato, specifico, concreto. Consiste nella realizzazione della piattaforma proclamata dalla mobilitazione, finalizzata alla risoluzione del disagio che ha dato vita alla protesta. La capacità di realizzare, almeno parzialmente, ciò per cui ci si è attivati rafforza il movimento perché mostra la coerenza tra azione e quanto prefissato e programmato. In pratica si tratta di valutare se e come il movimento sia riuscito ad alterare le deliberazioni istituzionali e ad imporre una influenza invisa alla concatenazione usuale del potere mediante il blocco, il condizionamento o la modifica dei disegni degli organi eletti. Nel valutare l’efficacia dei movimenti non ci si può limitare all’aspetto retorico (ciò che il movimento dice, magari amplificato dalla visibilità mediatica) e coreografico (manifestazioni, simboli): la questione cruciale, a mio avviso, è se il movimento sia riuscito a sottrarre potere alle istituzioni e a cambiare il corso degli eventi previsto; se questo è avvenuto, ci si deve chiedere in che modo (trattative segrete, subordinazione clientelare o rapporti di forza) e per questioni di che rilevanza (riuscire a bloccare la sostituzione di un parco in parcheggio mi pare abbia meno peso rispetto a bloccare una linea di treno ad alta velocità).

Il secondo obiettivo che si può scorgere, sebbene spesso non dichiarato, credo, sia più ambizioso ed implicito: sottrarre sovranità allo Stato per trasferirla alla società. Da un lato si mette in discussione l’autorità esclusiva delle istituzioni politiche, dall’altro si afferma, con i fatti, la possibilità e la volontà di esercitare potere direttamente, senza passare attraverso la democrazia per delega. I movimenti di fatto rappresentano l’espressione diretta di settori della società civile che non si rassegnano a veder esaurita la propria dimensione politica nel voto: sfidano lo Stato, negano legittimità alle sue istituzioni e, implicitamente, rivendicano una sovranità popolare, alternativa a quella istituzionale. L’efficacia di un movimento, in questo senso, si deve valutare, oltre all’ottenimento di rivendicazioni specifiche, nella capacità complessiva di gestire l’ambiente, le risorse e il vissuto quotidiano in modo conforme all’orientamento desiderato dalla società. Come già rilevato da Mellucci (1982) uno degli obbiettivi dei movimenti è la creazione di nuove soggettività. Va specificato, a mio avviso, che in un contesto come quello occidentale odierno in cui gli stili di vita (o la loro apparenza) sono acquistabili sul mercato, la generazione di stili di vita emergenti può essere considerata un esito dei movimenti solo quando questi non ripropongono logiche mercificate ma esprimono la significativa sovversione di alcuni dei canoni prevalenti. Questo significa necessariamente sottrarsi alle imposizioni governative che standardizzano il nostro vissuto in direzioni imposte e secondo modalità che non ci vedono protagonisti ma sudditi. La potenzialità, l’interesse e la minaccia dei movimenti, visti rispettivamente nelle prospettive del militante, dell’analista e del politico eletto, sta proprio nel rivendicare la costituzione di spazi culturali autonomamente prodotti, liberi dalla disciplina dei governi (Boni 2006).

La nozione di “cultura politica” e di “politica culturale”, utilizzata da numerosi studiosi dei movimenti segnala che i movimenti hanno smascherato la presunta neutralità operativa del potere istituzionale (Álvarez, Dagnino, Escobar 1998). Le decisioni dei vari governi eletti non si limitano a imparziali decisioni tecniche ma rappresentano l’imposizione di condizionamenti indesiderati sulla società e sulle sue scelte. I movimenti prospettano alternative culturali che per imporsi devono assumere una dimensione politica.

Considero la politica culturale il processo che ha luogo quando attori sociali plasmati da o portatori di differenti significati e pratiche entrano in conflitto tra loro. La nozione di politica culturale presuppone che il significato e le pratiche culturali – specialmente quelle teorizzate come marginali, oppositive, minoritarie, residuali, emergenti, alternative, dissidenti, e simili, tutte concepite in relazione a un dato ordine culturale dominante – possono essere la fonte di processi che devono essere ritenuti politici. Che questo venga raramente riconosciuto, è dovuto più ad un riflesso di sclerotizzate definizioni di cultura politica piuttosto che essere una indicazione della forza sociale, efficacia politica, o rilevanza epistemologica delle politiche culturali. Una politica culturale ha il potenziale per ridefinire le relazioni sociali esistenti, culture politiche, e circuiti di conoscenza. La cultura diventa politica quando il significato diventa fonte di processi che, implicitamente o esplicitamente, cercano di ridefinire il potere sociale (Escobar 1997: 42).

I due obiettivi, risultati concreti rispetto a tematiche specifiche e autonomia complessiva delle prassi culturali, sono in realtà interconnessi: per far proliferare la cultura politica dell’autogestione i movimenti devono ottenere risultati tangibili sulle vertenze. Tuttavia, se il primo obbiettivo è valutabile con maggiore precisione e su un tempo circoscritto, il secondo si misura, invece, sul lungo periodo e riguarda, sostanzialmente, la capacità di far proliferare azioni di protesta; di diffondere la consapevolezza, il metodo e gli strumenti di lotta popolare; di promuovere una cultura politica che abbia come protagonista la comunità auto-organizzata piuttosto che le istituzioni. I movimenti, anche quando non rivendicano esplicitamente tale obbiettivo, prospettano un’alternativa sistemica: la sostituzione di una democrazia elettorale ingiusta, insensibile, impopolare con una democrazia diretta partecipata, solidale e attenta alle necessità dei cittadini (Graeber 2008).

I movimenti non sono quindi un sostituto delle istituzioni, né la loro espressione popolare, né un loro complemento, sono piuttosto l’espressione di una logica di gestione del potere egualitaria e condivisa che rivendica autonomia nelle decisioni e gestione diretta. E’ vero che spesso tradiscono questa volontà, facendosi istituzioni. E’ vero che la conflittualità con le istituzioni è spesso accompagnata da pratiche che mostrano una dipendenza ideologica e finanziaria dai poteri costituiti. Ma è vero anche che la peculiarità e la forza di attrazione dei movimenti si fonda sulla partecipazione orizzontale, sull’azione diretta, sull’autogestione, ovvero sulla concretizzazione di logiche opposte a quelle istituzionali. Queste logiche tracciano una prospettiva che è al contempo politica, ovvero riguarda la distribuzione del potere, e culturale, ovvero è applicabile ad ogni aspetto del vissuto sociale. Ora questi poteri sono concentrati in organi, aziende e istituzioni coordinate dallo Stato, monopolista della sovranità legittima. I movimenti, opponendosi alla sovranità statale, pongono la questione cruciale e imprescindibile di una distribuzione diffusa del potere: una ri-localizzazione delle decisioni dai palazzi alle piazze, dalle istituzioni alla società.

SULL’AUTORE: http://www.eleuthera.it/scheda_autore.php?idaut=144

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