Manifesto del Terzo paesaggio – Gilles Clément

Terzo paesaggio rinvia a Terzo Stato (e non a Terzo mondo). Uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere.”*

Per comprendere il senso del Terzo paesaggio bisogna uscire dalla logica ecologica dominante negli ambienti accademici e cominciare a concepire la natura come qualcosa di non ordinato, che non va verso una direzione predefinita, ma che è imprevedibile e cambia continuamente: dunque essa non può essere studiata tramite modelli matematici. Di conseguenza non la si può nemmeno conservare rinchiudendola all’interno di certi confini, come qualcosa di statico che non cambia nel tempo.

Una volta superati questi limiti mentali, possiamo iniziare a pensare alla natura non come qualcosa che è andato completamente distrutto senza possibilità di recupero e che sopravvive solo in poche oasi protette, ma come un’entità che ci circonda, che si ritrova nei posti più impensabili e che ha solo bisogno di essere lasciata in pace per riprendere il sopravvento, magari sotto forme diverse da quelle che noi conosciamo o ci aspettiamo.

Gilles Clément definisce il Terzo paesaggio come l’insieme dei residui, ovvero quegli elementi di paesaggio ai quali non si dà una funzione, che derivano dall’abbandono di un terreno precedentemente sfruttato. Possono derivare da diversi ambienti: urbani, agricoli, rurali, industriali e comprendere qualsiasi tipo di ecosistema che possa garantire il mantenimento della diversità.

Principale caratteristica con cui può essere definito il Terzo paesaggio è infatti l’essere un punto di ritrovo della diversità.

Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio d’ombra, né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente.

Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.

Il Terzo paesaggio è un ambiente aperto: le specie non si isolano, ma si mescolano, cambiano, ne compaiono delle nuove e altre scompaiono.

Questo avviene perché il Terzo paesaggio è il luogo dell’invenzione e della sperimentazione, in cui la vita assume varie forme e comportamenti. C’è un’evoluzione dinamica, non costante. L’evoluzione del Terzo paesaggio dipende dalle necessità di adattamento all’ambiente, la vita non deve arrivare ad un risultato finale prefissato né ha una via già decisa da seguire: essa ha come priorità “organizzare per sé delle possibilità di esistenza.” Perciò per il Terzo paesaggio non è possibile utilizzare le curve di crescita teorizzate dai modelli statistici, poiché bisogna tener conto delle modalità biologiche dell’ambiente. L’evoluzione incostante fa si che i sistemi biologici resistano nel tempo: la vita può facilmente rimodellarsi seguendo i cambiamenti ambientali, assumendo nuove forme, cosa che un’evoluzione costante non può favorire. Le specie che si evolvono in maniera costante sono sottoposte alla pressione ambientale, e non hanno una capacità di adattamento attivo ai cambiamenti. La comunicazione tra le specie e la mescolanza di specie sono parti fondamentali e necessarie dell’evoluzione dinamica. Viene messo in discussione il principio per cui alcune specie devono essere conservate e mantenute “pure”, senza essere “contaminate” da altre “specie esotiche” o “pioniere” ritenute spesso “dannose”.

Come si mantiene il Terzo Paesaggio? Esso non è sottoposto a protezione da parte di un’istituzione, ma affidato alla coscienza collettiva. Se l’istituzione si interessa al Terzo paesaggio, lo erige a patrimonio dell’umanità. Il concetto di patrimonio rimanda a qualcosa di statico, a un modello di natura “congelata”, che non ha a che vedere con la dinamicità e l’imprevedibilità, perciò l’istituzionalizzazione e regolarizzazione del Terzo paesaggio possono condannare quest’ultimo alla sparizione. Quando l’istituzione si disinteressa del Terzo paesaggio ritenendolo un luogo senza valore dal punto di vista economico e morale e non lo modifica, ne rende possibile il suo sviluppo. Così sono garantiti “il mantenimento e il dispiegamento della diversità”.

Il Terzo paesaggio dunque non può essere gestito da nessuno, e si pone oltre la contrapposizione pubblico- privato. Esso è un bene di tutti.

Il Terzo paesaggio è oggetto di interesse da parte di un’istituzione o di qualsiasi altro ente quando esso può essere sfruttato in maniera redditizia dal punto di vista economico, questo può essere un danno per il Terzo paesaggio, poiché l’evoluzione biologica non può coincidere con quella economica: l’evoluzione economica favorisce l’accumulazione, “il Terzo paesaggio, territorio d’elezione della diversità, dunque dell’evoluzione, favorisce l’invenzione, si oppone all’accumulazione”.

 

KUKUMI88

 

 

* tutte le citazioni in corsivo sono prese dal libro di Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, edito da Quodlibet, curato da Filippo de Pieri

 

 

Nota su Gilles Clément:

Gilles Clemént, paesaggista, ingegnere, agronomo, botanico, entomologo e scrittore.

Degno di nota tra gli altri suoi libri, “Il giardino in movimento” in cui applica alla dimensione del giardino alcune delle sue teorie sul Terzo Paesaggio, proponendo un’idea di giardino diversa da quella tradizionale.

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