Perché dire no alle grandi opere? La salute non basta

Spesso i principali motivi del dissenso alla costruzione di un’antenna, un ponte o una ferrovia, che smuovono più facilmente gli animi delle persone e fanno persino uscire qualche parola di solidarietà dalle bocche di alcuni governanti, sono quelli riguardanti salute e ambiente.

Vengono chiamate in causa teorie scientifiche per dimostrare che un impianto di antenne satellitari costruito vicino a un centro abitato emana radiazioni elettromagnetiche che provocano il cancro, che in terreni dove sorgono inceneritori e discariche si trovano elementi tossici in gran quantità, esperti sono chiamati a dimostrare che un ponte di dimensioni megagalattiche sullo Stretto di Messina costituirebbe un intralcio per gli uccelli che migrano verso l’Africa, che la struttura del ponte non reggerebbe a un terremoto, e che un simile “colosso” distruggerebbe interi ecosistemi che attualmente sono dichiarati patrimonio dell’Unesco.

C’è un continuo bisogno di giustificare il “no” portando avanti teorie, chiamando in causa norme della Comunità Europea in merito alla salute pubblica e all’impatto ambientale, aggrappandosi ai numeri e alle statistiche.

Questa strategia spesso non tiene conto di quello che è il fondamento della scienza occidentale: qualsiasi teoria scientifica può essere sovvertita, perché una teoria resta valida finché un esperimento non dimostra il suo contrario. Allora chi è che decide quale teoria è più valida di un’altra?

Le verità scientifiche sono figlie delle scelte politiche ed economiche.

  • Dovete convenirne, Doughty. La scienza non può che essere obiettiva.
  • Obiettiva nell’ideale, ma soggetta alle circostanze, come ogni faccenda umana.
  • In questo caso, si tratta di opinione.
  • Eppure ricorderete la disputa tra Wilson e Benjamin Franklin.
  • Quella sul parafulmine?
  • Esatto. È più funzionale un parafulmine lungo e acuminato o corto e smussato?
  • Non ricordo chi dei due avesse ragione.
  • Perché gli esperimenti non sono riusciti a dimostrarlo. Tuttavia il re decise di dare ragione a Wilson e adesso le sue teorie stanno nei manuali scientifici e i suoi parafulmini sui nostri campanili.
  • Non capisco dove volete arrivare.
  • Be’, non potranno mai convincermi che quella scelta sia dipesa solo da ragioni scientifiche. Wilson era tory, Franklin whig. Uno era londinese, l’altro coloniale. Uno era protetto da Lord Vattelapesca, l’altro era il rappresentante commerciale della Pennsylvania. Credete che abbia pesato di più l’oggettività scientifica o la ribellione nel New England? Scommetto una ghinea che in Pennsylvania issano parafulmini a punta come noi qui li abbiamo tondi.”

“Manituana” – Wu Ming – Einaudi editore

Anche chi costruisce ponti enormi e ferrovie per treni iperveloci, infatti, si avvale del parere di un esperto prima di tagliare a metà una valle o di scavare la terra: tutti i progetti delle grandi opere prima di essere costruiti hanno bisogno di una certificazione che il loro impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone sia minimo: questa certificazione si chiama Valutazione d’impatto ambientale ed è la più grossa presa in giro messa a punto dal sistema capitalista.

Ci sono intere squadre di ingegneri, architetti, paesaggisti, ecologisti, fisici, anche di un certo spessore, che dimostrano che il ponte sullo stretto non darebbe fastidio agli uccelli migratori, e che la sua struttura è abbastanza elastica da resistere a un terremoto di magnitudo molto alta, che le antenne satellitari emanano radiazioni la cui intensità è al di sotto della soglia di pericolo per la salute delle persone. Non c’è niente che dimostri che queste teorie siano meno o più valide di quelle portate avanti da chi ha deciso di mettere la sua scienza e la sua perizia al servizio di popoli in lotta contro lo scempio delle grandi opere.

Ma allora chi decide quale sia il massimo della soglia di tolleranza alle radiazioni elettromagnetiche? Come si fa a sapere quanta CO2 bisogna eliminare dall’aria per renderla più respirabile e quanta ne può essere prodotta ancora dalla combustione delle auto e delle fabbriche? E in base a quali parametri si decide che ci siano territori che vanno protetti a tutti i costi eretti a patrimoni dell’umanità, mentre qualche metro più in là si può far colare il cemento a tonnellate? E a quale distanza dall’abitato si può costruire un’antenna senza dar fastidio a nessuno?

Nessuno ha mai deciso quali siano i numeri che contano di più. Chi decide la validità dei numeri sono in realtà gli interessi economici e politici.

Ebbene, ci si potrebbe chiedere, perché accanirsi allora contro le grandi opere nella difesa dei territori anziché lasciare che il cosiddetto “progresso” ci invada?

Il punto è che al di là dei numeri e delle statistiche, non ci vuole molto a capire che quando si vive vicino a una discarica, l’aria che si respira non è buona, o che quando una valle viene tagliata in due da una strada o da una ferrovia c’è un territorio che viene distrutto irrimediabilmente. Il punto è che nessuno andrebbe ad abitare vicino a una superstrada dove giorno e notte si sente il rombo dei motori a prescindere da quanti decibel siano sopportabili dall’orecchio umano, o dove si respirano continuamente gas di scarico delle auto o il puzzo della spazzatura; il punto è che nessuno berrebbe l’acqua di una terra contaminata a prescindere se vi sia o meno una soglia di tolleranza della tossicità o da quanta gente sia morta per intossicazione. Tutti, per semplice esperienza, sappiamo che la qualità della vita in queste condizioni è pessima.

Nonostante questa consapevolezza, spesso in queste condizioni ci viviamo, anzi quasi ci autoconvinciamo che sia giusto viverci nel nome di interessi più alti e che non sarebbe possibile vivere in un altro modo. Le grandi opere, infatti, non sono altro che un’amplificazione di ciò che già viviamo quotidianamente tutti quanti. Nelle nostre città siamo sommersi dalla nostra stessa spazzatura: perciò chi ne vive ai margini si deve “sacrificare” ad avere l’inceneritore sotto casa per ovviare all’“emergenza rifiuti” o in alternativa rassegnarsi alla discarica; nel nome del progresso economico si costruisce senza pietà modificando il territorio, sfrattando persone, confiscando terreni, bloccando le strade, creando cantieri in pieno centro abitato: con la stessa logica, chi vive in Val di Susa o dalle due parti dello stretto di Messina deve accettare la realizzazione dei due progetti più ambiziosi che ci siano in questo momento in Italia, che tanto benessere porteranno al paese; le nostre strade sono continuamente pattugliate dalle forze dell’ordine che ci devono garantire la sicurezza: allora perché non volere i militari americani che fissano le loro basi nel Mediterraneo per poterci proteggere dai terroristi che ci minacciano dall’Est.

Insomma, in nome di un bene superiore, si deturpano i territori e si mina la libertà delle persone di viverci pacificamente e decorosamente.

Questo bene superiore mascherato da crescita, progresso, civiltà rappresenta più semplicemente il bene di chi ha interesse a mantenere questo sistema economico basato sulla produzione e sul consumo e detiene il controllo delle risorse del pianeta. Militarizzare il Mediterraneo serve a mandare avanti le industrie della guerra, costruire inceneritori crea un giro di denaro intorno ai rifiuti, i treni veloci fanno viaggiare i “signori” del cemento per permettergli di condurre i loro affari in una giornata da una parte e dall’altra dello stivale.

A questo punto i sostenitori più accaniti delle grandi opere se ne verrebbero fuori con una domanda: qual’è l’alternativa proposta? Volete fermare il progresso e tornare indietro a pascere le pecore?

Bene: premesso che questo famigerato “progresso” porterebbe ricchezza a pochi e manterrebbe comunque in povertà gran parte delle persone, anch’io avrei delle domande da porre a riguardo.

Come si fa a conciliare il “progresso” con la limitazione della libertà delle persone?

In una società che si definisce “civile” ci può essere qualcuno che si sacrifica per il bene di qualcun altro, o per meglio dire per un bene superiore?

Mi chiedo se ci sia davvero bisogno di trovare un’alternativa alle grandi opere, o se invece la realtà è che non vi sia alcun vero bisogno di costruirle: in tal caso non ci sarebbe bisogno nemmeno di un’alternativa. Forse ciò a cui davvero serve un’alternativa è l’intero sistema economico e politico.

Urge un sistema in cui le risorse siano gestite in comune e accessibili a tutti, anziché essere in mano a qualcuno che decide chi ne può usufruire e in che misura; un sistema in cui il valore delle cose non si misuri in denaro, ma sulla base delle effettive necessità di ognuno; un sistema in cui si riscopra il piacere di fare le cose e si abbia il tempo per godersele; un sistema in cui non solo l’ambiente naturale, ma anche quello urbano sia più vivibile, con più “spazi verdi”, con meno strade e senza automobili in cui ci si possa muovere in maniera diversa da quella attuale; un sistema basato non su poteri centrali o centralizzati, ma sull’autogestione e sul rispetto della libertà di ogni singolo individuo.

KUKUMI 88

Informazioni su CUSA - umanesimoAnarchico

gruppo pacifista, ecologista, libertario.
Questa voce è stata pubblicata in anarchia, ecologia, umanesimo. Contrassegna il permalink.

Una risposta a Perché dire no alle grandi opere? La salute non basta

  1. Pingback: Perché dire no alle grandi opere? La salute non basta | kukumi88

I commenti sono chiusi.