23 ottobre a Roma, Nuovi Umanesimi per il nuovo millennio

 

Nuovi Umanesimi 23 ottobre Roma

 

Viviamo in un’epoca in cui il fallimento delle grandi ideologie sembra accompagnarsi all’irrazionale convinzione che il pensiero umano non possa più permettersi di attardarsi nella costruzione di un’alternativa ideologica. Mentre l’accelerazione tecnologica non sembra lasciarci il tempo per la riflessione, il pragmatismo contamina di nonsenso l’azione umana. Siamo assetati di riferimenti ma nello stesso tempo i riferimenti tradizionali ci risultano inadeguati e superati. Quale destino ci attende? Quali le scelte? Quale umanesimo per il nuovo millennio?”

Tavola rotonda a cura di Vito Correddu con la partecipazione di Stefano D’Errico e Valerio Colombo.

 

presso la libreria Assaggi di Roma, in via degli Etruschi 4 (San Lorenzo). Dalle 19 è possibile prendere l’aperitivo e alle 19.30 è previsto l’inizio della tavola rotonda.

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18-19 ottobre, la fine è il nostro inizio

Post manifestazione – Risveglio da un sogno

 

Abbiamo scritto il volantino sul 19 ottobre convinti che la manifestazione fosse frutto di un incontro tra diverse realtà che si sono coordinate per scendere insieme in piazza portando ognuna le proprie istanze.

Abbiamo pensato che poteva essere l’occasione per far incontrare mondi diversi e lontani, con obiettivi comuni, in particolare i movimenti territoriali come No Muos e No Tav.

Abbiamo auspicato che oltre la semplice “sfilata” di piazza, da questo incontro potesse nascere un percorso comune e condiviso tra tutte le realtà in lotta in questo paese.

Forse per cattiva informazione o per scarsa capacità nostra di informarci, a posteriori ci rendiamo conto di esserci sbagliati su tutta la linea.

Il corteo organizzato da una realtà in particolare, il movimento di lotta per la casa, a cui altre realtà hanno semplicemente aderito, aveva un obiettivo già prefissato, quello dell’incontro con il ministro dei trasporti Lupi ed è perfettamente riuscito nel suo intento.

Ribadendo in ogni caso la nostra vicinanza a tutte le realtà presenti al corteo, compreso il movimento di lotta per la casa, siamo comunque convinti che le lotte non si possono vincere cercando prima di tutto il dialogo con le istituzioni, poiché in questo modo se ne perde il significato, e pertanto, sempre a posteriori, ci chiediamo se abbia ancora senso partecipare a eventi di questo tipo con queste modalità.

 

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Finalmente.

Finalmente dopo quasi 2 anni di silenzi – sotto i colpi sferrati dal governo dei banchieri e dell’alta finanza – mesi in cui trasudava un senso di generale impotenza, da ogni poro dei movimenti e del corpo sociale; finalmente si torna in piazza e nelle strade con una mobilitazione ampia, unitaria, e dai contenuti e le potenzialità radicali.

Come negli anni passati, con l’inizio dell’autunno, spiriti battaglieri si risvegliano dal torpore, e il Paese è scosso da nord a sud da ondate di occupazioni, iniziative, interventi di piazza, sit in, ecc. per prepararsi al grande evento collettivo.

No Tav, No Muos, lavoratrici e lavoratori, scioperanti del trasporto pubblico, sindacati di base, studenti, donne, disoccupati, immigrati ed emarginati. Tutti/e di nuovo insieme, ognuno con le proprie specificità, per dire che cambiare si può, cambiare si deve. E che i bisogni, le istanze, le tensioni e le urgenze, imposti dal continuo propagarsi di una crisi apparentemente senza fondo, sono ben più importanti delle pur legittime, molteplici differenze.

La risposta dello Stato invece, è stata e sarà la stessa di sempre. Ogni angolo pattugliato, piazze militarizzate, campagne di terrore mediatico alimentate dallo spauracchio del “black bloc”, da contrapporre al manifestante “pacifico”, ovvero disciplinato da lacrimogeni e manganelli. Ancora un’ennesima, bieca strategia per avere dei capri espiatori su cui scaricare le proprie enormi responsabilità, e mantenere saldi i sacri principi della democrazia.

C’è forse anche un’ aria nuova però, che soffia? Ed è una nuova generazione quella che può rinascere dalle ceneri delle martoriate e controverse lotte egli ultimi anni? Lasciandosi magari alle spalle molte delle logiche avanguardiste e minoritarie, che troppo spesso hanno dominato in tempi recenti, i migliori fenomeni di insorgenza giovanile.

L’esperienza delle lotte comunitarie e territoriali, del Patto di Mutuo Soccorso ed in particolare della Val di Susa – ma anche dei movimenti di Occupy e di alcuni “indignados” – hanno tracciato infatti dei possibili, seppur critici, percorsi alternativi. Dimostrando che quando le singole lotte si fondono con le esperienze autogestionarie e di comunità – fuori e contro le istituzioni politiche, e senza compromessi di sorta – quando dai conflitti specifici si passa al tentativo concreto di costruzione di una società e una vita radicalmente diverse, le stesse lotte si rafforzano – e magari vincono – proprio perché si coniugano col senso più profondo e autentico delle lotte stesse.

Vorremmo perciò che anche da questa due giorni, potesse prendere avvio un percorso che vada nella medesima direzione. La direzione dell’autogestione delle fabbriche, delle aziende e dei servizi pubblici, e in generale di tutti i posti di lavoro; senza e contro ogni espressione e gerarchia padronale. La direzione della riappropriazione incondizionata (cioè a costo zero) degli spazi sociali e abitativi, della libera e spontanea occupazione, sulla base dei diritti e dei redditi minimi garantiti.

Ci auguriamo che questo sciopero e questa manifestazione, non siano soltanto una sfilata di bandiere e gruppi più o meno politici, una parata di lotte che da domani torneranno a coltivare ognuna il proprio – pur prezioso – orticello, bensì un momento di incontro trasversale da cui far nascere la possibilità di un nuovo senso comune, che sappia costruire reticolati di sovversioni condivise e potenziate, senza nulla togliere alle singole identità ed anzi rafforzandole.

Consapevoli che l’unione di forze ed energie, non è la somma algebrica di due o più soggetti, bensì un salto verso ciò che ancora non possiamo e non possono neanche immaginare, percepire, controllare.

 

 

CUSA

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Strumenti analitici per uno studio dei movimenti sociali (di Stefano Boni)

TESTO DI RIFERIMENTO PER IL DIBATTITO DEL 6 OTTOBRE 2013, ALLA 6^A VETRINA DELL’EDITORIA ANARCHICA E LIBERTARIA SU “TRASCENDENZA DELLE ISTITUZIONI POLITICHE, NUOVI DISPOSITIVI DI POTERE E MOVIMENTI SOCIALI EMERGENTI”.

L’attenzione crescente che le scienze umane stanno dedicando ai movimenti sociali riconosce e riflette un cambiamento in corso nelle forme di partecipazione politica. La novità non risiede tanto nell’emergere di movimenti sociali, intesi come soggetti collettivi non facenti parte di istituzioni politiche legittimate dalla legge e dai mass media, che si attivano per informare e/o intervenire su temi di interesse pubblico, tanto quelli minuti e localizzati quanto quelli riconosciuti come cruciali e globali. Ogni potere istituzionalizzato ha generato qualche forma di risposta popolare autogestita (Scott 2009). La novità dei movimenti sociali contemporanei è nella capacità di mettere a nudo, nella loro drammaticità, le crisi della democrazia elettorale.

1. Resistenza, movimenti, rivoluzione

Con l’affermazione delle democrazie rappresentative, le eruzioni di autogestione popolare, che hanno caratterizzato la conflittualità di classe e antistatale nella Europa moderna e contemporanea e nelle colonie, vengono viste da scienziati sociali e politici di sinistra come arcaiche, primitive, immature. Nella visione degli intellettuali marxisti del secondo dopoguerra, il popolo per entrare nella modernità doveva “organizzare” le sue proteste ma, essendo incapace di farlo, era indispensabile che a dirigere la lotta fosse chiamata una avanguardia dotata del necessario sapere politico per condurre la massa inconsapevole alla rivoluzione. La prospettiva rivoluzionaria è esemplificata dal lavoro di Hobsbawm (1959: 10) che stigmatizza le ribellioni rurali spontanee, anarcoidi e “primitive”:

Noi sosteniamo che, finché il fenomeno sia lasciato nelle mani degli stessi contadini, il processo di modernizzazione non si verifica affatto o si verifica solo con molta lentezza e in maniera incompleta; si verifica invece in modo più completo e di maggior successo se il movimento millenaristico venga inserito in schemi organizzativi, in una teoria e in un programma che arrivino ai contadini dall’esterno.

Oggi la prospettiva rivoluzionaria, che aveva caratterizzato le scienze politiche e le coscienze nella seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento associata quasi invariabilmente al comunismo, si è esaurita. Lo smascheramento delle ipocrisie dei regimi marxisti e l’affermazione globale del capitalismo ha generato il tramonto della prospettiva rivoluzionaria: la storia ha mostrato che la fede nella bontà della modernità e dell’avanguardia era mal riposta (Graber 2002; Boni 2010). L’abbandono dell’ambizione di prendere possesso del governo con la forza non significa che la volontà popolare si esaurisca necessariamente in resistenze individuali e minute, esaltate dagli studi degli anni Ottanta in maniera spesso romantica, esagerandone il potenziale sovversivo e la coscienza politica di chi le metteva in pratica (Comaroff 1985; Scott 1985, 1990; Abu-Lughod 1990). Esistono come hanno notato Fox e Starn (1997: 2) “forme intermedie di mobilitazione… il terreno tra la rivoluzione di massa e le resistenze di piccola scala”. I movimenti sociali si collocano tra le sovversioni esili, segrete, personali e la rivoluzione intesa come sollevazione collettiva finalizzata ad un ribaltamento immediato dell’ordine politico. Oggi, in maniera sempre più marcata, l’attivismo politico popolare assume la forma, più modesta ma spesso anche più consapevole, del movimento sociale con rivendicazioni più limitate, legate a problemi specifici.

Premesso che le definizioni sono convenzioni che vanno giudicate per quanto offrono alla capacità di analisi, definisco i movimenti sociali forme di attivismo politico conflittuale, collocato al di fuori dei prestabiliti canali istituzionali (partiti e amministrazioni) ed espresso da reti informali di soggetti individuali e collettivi. La restante parte di questo contributo è finalizzata a caratterizzare in maniera più precisa alcuni tratti dei movimenti degli ultimi decenni che hanno preso forma nelle diverse parti del pianeta mostrando tendenze comuni. Sono costituiti da reti di persone, liberate dalle certezze del paradigma marxista e dalla convinzione che un governo rivoluzionario avrebbe condotto il popolo verso la felicità eterna. Si strutturano in forme cangianti, inclusive e imprevedibili, espressioni organiche di una società civile in divenire. I movimenti si nutrono di connessioni flessibili: possono comprendere associazioni ma le travalicano coinvolgendo gruppi informali, sindacati, intere comunità, singoli (Abelmann 1997; Edelman 1999; Graeber 2009). Sempre più i movimenti sono privi, almeno nella loro fase iniziale, di organi centralizzati e di dottrine escludenti. Non mirano a prendere il potere ma a condizionarne la distribuzione riaffermando l’importanza della volontà popolare su quella istituzionale (Holloway 2002).

E’ possibile differenziare per macro-aree geografiche la forza dei movimenti sociali. In Occidente negli ultimi decenni ha prevalso, nonostante qualche eccezione rilevante, una certa inconsistenza e inconcludenza dei movimenti. In America Latina la tradizione di attivismo politico popolare ha preservato la sua intensità assumendo forme organizzative innovative. Perché in certe nazioni si sviluppano movimenti sociali che riescono ad avere un peso notevole nell’equilibrio politico e in altri contesti sono limitati al ruolo di protesta sostanzialmente ininfluente? Questa domanda conduce necessariamente a discutere delle premesse sociali e degli strumenti adottati dai movimenti.

2. Le premesse: un disagio, una comunità, una assemblea, una volontà

La prima premessa per l’emergere dei movimenti sociali è il disagio per l’esercizio del potere delle istituzioni politiche legittime. Insoddisfazione e quindi dissenso: i movimenti sociali hanno una dimensione principalmente oppositiva, contrastare il pensiero, la prassi, le politiche, le tecniche, l’ideologia dominante. Le ragioni per opporsi a disegni istituzionali possono essere le più varie. Un elenco incompleto comprende: la richiesta di interventi per rendere più equa la distribuzione della proprietà agricola e per la salvaguardia del lavoro contadino (Pérez-Vitoria 2005); istanze per la verità e la giustizia; la salvaguardia del lavoro e del salario; la difesa di servizi pubblici minacciati (Albro 2005; Esteva 2008); l’affermazione della dignità di ogni orientamento sessuale; mobilitazioni contro progetti che hanno un impatto negativo sull’ambiente quali le perforazioni petrolifere (Pepino 2009), l’estrazione di carbone, la costruzione di infrastrutture, l’introduzione di organismi geneticamente modificati; proteste contro misure legislative impopolari (Merklen 2002); la salvaguardia di territori ritenuti ‘indigeni’; la rivendicazione di diritti civili (libertà di espressione, di manifestazione); organizzazioni urbane di quartiere finalizzate ad autogestire aspetti della vita vicinale; la rivendicazione di autonomia nella amministrazione dei servizi scolastici, abitativi e sanitari (Bartolomé 1995). Non tutti i movimenti sociali sono progressisti, ecologisti e di sinistra: chi critica la politica istituzionale perché incapace di garantire la sicurezza, o partendo da preoccupazioni nazionaliste o razziste può costituirsi in movimento. In Italia di sono formati comitati per garantire la sicurezza notturna nei quartieri da pericoli più o meno immaginari e l’insoddisfazione con le politiche neoliberiste ha fatto nascere a destra un movimento, Casa Pound, dai forti toni nazionalisti. In Bolivia nel nuovo millennio si è rafforzato un movimento che evoca le dottrine totalitarie della prima metà del Novecento, la Unión Juvenil Cruceñista. Da notare che tali movimenti tendono ad assumere strutture gerarchiche e viene meno, in maniera evidente, una delle caratterizzazioni cruciali dei movimenti sociali così come li stiamo definendo: l’orizzontalità nella partecipazione.

Una seconda premessa imprenscindibile dell’attivarsi di un movimento e la presenza di comunità, un insieme di soggetti che si sentono parte di una identità e di un destino comune. L’accentramento del potere comunicativo nei mass-media, l’invasività egemonica del potere statale e lo strapotere decisionale della imprenditoria ha annichilito molteplici comunità (Bauman 2003). Queste identità, marginalizzate e stigmatizzate, cercano mediante una mobilitazione pubblica diretta, in primo luogo di affermare la propria esistenza, e in secondo luogo, se le forze lo permettono, di negoziare, contrastare, opporsi e costruire alternative (Zibechi 2008). Il senso di appartenenza unisce e crea i presupposti per una mobilitazione convergente, condivisa, efficace. Molta attenzione è stata prestata alle comunità virtuali, telematiche, ai movimenti trans-nazionali che sono proliferati, soprattutto in Occidente nel recente passato (Appadurai 1996). Questi spesso sono mobilitati via internet e compiono azioni eclatanti e ben reclamizzate dai media ma la partecipazione dei più si limita ad una semplice adesione telematica. Le comunità che riescono a generare movimenti resistenti, duraturi, partecipati, fruttuosi sono, in genere, comunità localizzate, a volte strenuamente legate ad una identità locale.

Una comunità è indispensabile per dare forza al movimento sia perché costituisce il circuito da cui attingere le risorse tecniche, artigianali, comunicative e intellettuali che servono per far avanzare la lotta; sia perché le comunità hanno embrionali forme politiche, a volte egualitarie, che possono formare lo scheletro del processo decisionale del movimento, l’assemblea. Una terza premessa del movimento è appunto la sua capacità di coinvolgimento e questo si accentua quando le soggettività percepiscono che l’azione popolare non ricalca le dinamiche, logore e corrotte, della democrazia parlamentare. E’ proprio il declino della partecipazione partitica che genera le premesse per una partecipazione ai movimenti a patto che questi non ripropongano le stesse logiche gerarchiche e poco trasparenti delle istituzioni. I movimenti si trovano spesso a dover gestire tensioni opposte: una spinta verso il mantenimento di una organizzazione orizzontale, partecipata assembleare e una tendenza a centralizzare il potere in intellettuali, retori, mediatori, esperti, tecnici (Della Porta e Diani 2006: 412-143). In genere la centralizzazione si accompagna alla istituzionalizzazione dei movimenti e fa venir meno la loro informalità, duttilità, egualitarismo.

Le tre premesse discusse sopra, in genere ne attivano una quarta, la volontà di intraprendere l’arduo cammino del conflitto con le istituzioni. Una convinzione e decisione che è imprenscindibile per riuscire a far fronte alle minacce, alle ritorsioni legali, ai tentativi seduttivi di trasformarsi in partito, alla criminalizzazione mediatica e alle violenze istituzionali. Una perseveranza che deve supplire alla mancanza di fondi con collette e lavoro volontario, alla esclusione dai mass media con l’attivazione di reti comunicative informali, alla persecuzione giudiziaria con reti di solidarietà.

3. Gli strumenti: disubbidienza civile e azione diretta

Spesso privi delle sovvenzioni, appoggi e risorse statali, i movimenti devono costruire i propri dispositivi di intervento in prima persona. Gli strumenti di azione politica vanno decisi, elaborati e implementati in base alle finalità che il movimento, in una determinata fase del suo percorso, si propone. In un’ottica movimentista le forme legali di protesta concesse dagli stati si rivelano frequentemente inefficaci, ovvero non riescono a garantire l’ottenimento degli obbiettivi che la protesta si è data. Sarebbe in effetti paradossale che uno stato concedesse legalmente mezzi per minare la propria sovranità.

Un primo, imprenscindibile strumento è la comunicazione sia interna che con potenziali alleati. La circolazione di messaggi auto-prodotti può prendere la forma di riunioni, assemblee, volantini, fogli informativi, lettere ai giornali, radio indipendenti, pagine web, petizioni, manifestazioni. La facoltà di informare è un presupposto dell’azione movimentista ma, in regimi repressivi che controllano capillarmente i flussi comunicativi mediatici, può diventare anche il principale obbiettivo. Quando il movimento non sente di avere la forza per imporre una propria volontà, può cercare di acquisire uno spazio in flussi informativi globali, mostrando in modo strumentale e più o meno amplificato la propria sofferenza, per attrarre visibilità, contatti e risorse (Koensler 2008). La gestione dell’informazione richiede di elaborare e permette di diffondere un diverso regime di verità rispetto a quello istituzionale: consente di mostrare occultamenti nella versione ufficiale, riportare l’attenzione sul disagio della popolazione e di cambiare l’impostazione concettuale delle vertenze. La comunicazione permette rivoluzioni simboliche e sovvertimenti dell’immaginario ma può avere una efficacia limitata se non viene coniugata con azioni dirette mirate ad intervenire sulla materialità.

Un secondo ambito di interventi attivato dai movimenti esprime il proprio disagio cercando di colpire le istituzioni che sono identificate come responsabili. Le prassi più marcatamente ostruttive prevedono il fermo di progetti considerati dannosi mediante il blocco stradale, l’intralcio alla prosecuzione di lavori, l’occupazione di terreni e la distruzione di macchinari (Auyero 2003). I momenti distruttivi coinvolgono spesso folle rabbiose e sfociano in saccheggi, danneggiamenti e roghi di edifici pubblici. Se questi sono gli atti che ricevono la maggiore attenzione mass-mediatica perché discreditano il movimento agli occhi dell’opinione pubblica, i movimenti hanno generato, anche strumenti costruttivi: centri culturali, marce, visite collettive, associazioni, centri produttivi, scuole, cliniche, biblioteche (Chatterjee 2004).

La volontà di offendere, ostruire e difendere ciò che si è costruito possono portare movimenti o frange di movimenti ad adottare la violenza in forma più o meno pronunciata, da attentati a vere e proprie formazioni combattenti strutturate in eserciti. In genere quando si opta per lo scontro aperto, continuato e violento con lo Stato il movimento cambia drasticamente la sua configurazione (Sergi 2009). La rivolta nel delta del fiume Niger contro i danni ecologici prodotti dagli impianti di estrazione del petrolio e la mancata redistribuzione degli utili tra le comunità residenti esemplifica questo passaggio da forme pacifiche, associative di pressione durate decenni, alla lotta armata di decine di gruppi che operano sequestri lampo e danneggiamenti agli impianti petroliferi (Pepino 2009).

Lo strumentario movimentista è quindi compreso tra la disubbidienza civile e l’azione diretta. La disubbidienza civile, sebbene possa adottare forme illegali, si muove tendenzialmente all’interno di un quadro che mira a far pressione sullo Stato e ne riconosce l’autorità. L’azione diretta invece non riconosce la sovranità statale, segue l’autonoma decisione comunitaria e la difende dalle interferenze statali (Graeber 2009: 201-211). Gli strumenti che il movimento sceglie di mettere in campo dipendono dalla linea politico-morale, dal percorso, dal momento, dagli obiettivi. Spesso i movimenti si trovano, ad un certo punto della loro esistenza, a convincersi che solo uno scontro aperto con lo Stato permetterà di fermare il disagio all’origine dell’azione movimentista.

4. I rapporti con le istituzioni politiche

Per quanto abbiamo definito i movimento sociali come un attivismo politico popolare fuori dalle istituzioni, queste mantengono una centralità indiscutibile se non altro come entità da contrastare; enti a cui presentare ricorsi, esposti, denunce; politici con cui avviare percorsi di dialogo e pressione. Il movimento talvolta finisce per costituirsi in associazione o partito proprio per assumere una forma riconosciuta nelle relazioni con le amministrazioni elette. Le mobilitazioni popolari sono caratterizzate da una continua tensione tra la tendenza a preservare l’autonomia e quella ad entrare in rapporti simbiotici (spesso di dipendenza) con le istituzioni.

Nell’ottica dei poteri istituzionali, i movimenti generano un notevole fastidio per i contenuti che propongono, gli strumenti di lotta che assumono, la forma politica che scelgono, l’alternativa che prospettano. Le mobilitazioni espongono fatti, questioni, visioni che le amministrazioni occulterebbero volentieri. Gli strumenti illegali di lotta generano molteplici imbarazzi perché mettono in crisi l’ordinaria amministrazione dei servizi che lo stato dovrebbe garantire; minacciano la sovranità dello stato e il suo monopolio della violenza legittima; prospettano modalità di lotta che se adottate sistematicamente stravolgerebbero l’assetto istituzionale. Una delle principali difficoltà che lo Stato ha nel gestire i movimenti è che le strategie politiche abituali della democrazia parlamentare (negoziazioni, compromessi, spartizioni, pressioni personali) possono non avere effetto se la mobilitazione rimane fedele ai suoi obbiettivi.

Per queste ragioni, le istituzioni politiche adottano frequentemente una combinazione tra coercizione e seduzione per svuotare la pericolosità delle mobilitazioni popolari. La risposta coercitiva, ristabilire la legge e l’ordine mediante arresti e azioni poliziesche, l’opzione più ovvia nella logica del potere costituito, rischia di avere l’effetto di rafforzare il dissenso popolare piuttosto che stemperarlo. Ai manganelli, alle prigioni, agli assassini di attivisti si affiancano quindi tecniche di cooptazione mediante l’offerta di una candidatura ai protagonisti nonché l’attivazione di relazioni clientelari con i militanti per deprimere l’adesione (Bartolomé 1998; Auyero 2006; Jácome 2007). Un’altra strada per svuotare l’impeto movimentista, implementata dai partiti di sinistra che hanno preso il potere specialmente in America Latina, spesso grazie all’appoggio di mobilitazioni popolari, è l’alleanza (Della Porta e Diani 2006 223-249). Questa può condurre settori istituzionali ad offrire appoggio politico, finanziario, organizzativo, al movimento con la speranza di convogliare consensi elettorali. In alternativa, l’appoggio ai movimenti può generare forme di democrazia popolare istituzionalizzata che possono prendere la forma del bilancio o della gestione partecipativa (Baierle 1998; Harnecker 1995; Medeiros 2001; Boni 2011). Recentemente, in forma più propagandistica che efficace, anche le amministrazioni locali occidentali hanno promosso spazi, spesso scarsamente significativi, di partecipazione sotto l’etichetta “Agenda 21” o “Nuovo Municipio”. La finalità delle istituzioni è quasi sempre quella di ricondurre l’informe e pericolosa partecipazione popolare a canoni e modalità istituzionali, legali e pacifici, in cui può essere più facilmente controllata, manipolata e neutralizzata.

Se l’istituzionalizzazione è promossa dalle forze esterne al movimento, anche le dinamiche interne alla mobilitazione popolare possono favorirla. Il successo di un movimento rischia di sclerotizzare la sua struttura e di alterare i connotati decisivi della protesta. Alla crescita di consenso, e quindi all’aumento della complessità gestionale del movimento, ci sono due risposte possibili. Primo, la salvaguardia dei principi fondativi che spesso presuppongono uguaglianza, partecipazione diffusa, forme di decisione assembleari; l’allargamento avviene a rete, con la moltiplicazione di frammenti organizzati con lo stesso peso politico. Secondo, la centralizzazione e burocratizzazione del movimento, caratterizzate dalla creazione di un organo direttivo e, spesso, della trasformazione della struttura informale in gerarchie riconosciute nella forma di associazioni o partiti politici.

5. Gli obiettivi e l’efficacia: riappropriarsi del potere decisionale

Gli obiettivi dei movimenti sociali sono molteplici. Il primo è esplicito, dichiarato, specifico, concreto. Consiste nella realizzazione della piattaforma proclamata dalla mobilitazione, finalizzata alla risoluzione del disagio che ha dato vita alla protesta. La capacità di realizzare, almeno parzialmente, ciò per cui ci si è attivati rafforza il movimento perché mostra la coerenza tra azione e quanto prefissato e programmato. In pratica si tratta di valutare se e come il movimento sia riuscito ad alterare le deliberazioni istituzionali e ad imporre una influenza invisa alla concatenazione usuale del potere mediante il blocco, il condizionamento o la modifica dei disegni degli organi eletti. Nel valutare l’efficacia dei movimenti non ci si può limitare all’aspetto retorico (ciò che il movimento dice, magari amplificato dalla visibilità mediatica) e coreografico (manifestazioni, simboli): la questione cruciale, a mio avviso, è se il movimento sia riuscito a sottrarre potere alle istituzioni e a cambiare il corso degli eventi previsto; se questo è avvenuto, ci si deve chiedere in che modo (trattative segrete, subordinazione clientelare o rapporti di forza) e per questioni di che rilevanza (riuscire a bloccare la sostituzione di un parco in parcheggio mi pare abbia meno peso rispetto a bloccare una linea di treno ad alta velocità).

Il secondo obiettivo che si può scorgere, sebbene spesso non dichiarato, credo, sia più ambizioso ed implicito: sottrarre sovranità allo Stato per trasferirla alla società. Da un lato si mette in discussione l’autorità esclusiva delle istituzioni politiche, dall’altro si afferma, con i fatti, la possibilità e la volontà di esercitare potere direttamente, senza passare attraverso la democrazia per delega. I movimenti di fatto rappresentano l’espressione diretta di settori della società civile che non si rassegnano a veder esaurita la propria dimensione politica nel voto: sfidano lo Stato, negano legittimità alle sue istituzioni e, implicitamente, rivendicano una sovranità popolare, alternativa a quella istituzionale. L’efficacia di un movimento, in questo senso, si deve valutare, oltre all’ottenimento di rivendicazioni specifiche, nella capacità complessiva di gestire l’ambiente, le risorse e il vissuto quotidiano in modo conforme all’orientamento desiderato dalla società. Come già rilevato da Mellucci (1982) uno degli obbiettivi dei movimenti è la creazione di nuove soggettività. Va specificato, a mio avviso, che in un contesto come quello occidentale odierno in cui gli stili di vita (o la loro apparenza) sono acquistabili sul mercato, la generazione di stili di vita emergenti può essere considerata un esito dei movimenti solo quando questi non ripropongono logiche mercificate ma esprimono la significativa sovversione di alcuni dei canoni prevalenti. Questo significa necessariamente sottrarsi alle imposizioni governative che standardizzano il nostro vissuto in direzioni imposte e secondo modalità che non ci vedono protagonisti ma sudditi. La potenzialità, l’interesse e la minaccia dei movimenti, visti rispettivamente nelle prospettive del militante, dell’analista e del politico eletto, sta proprio nel rivendicare la costituzione di spazi culturali autonomamente prodotti, liberi dalla disciplina dei governi (Boni 2006).

La nozione di “cultura politica” e di “politica culturale”, utilizzata da numerosi studiosi dei movimenti segnala che i movimenti hanno smascherato la presunta neutralità operativa del potere istituzionale (Álvarez, Dagnino, Escobar 1998). Le decisioni dei vari governi eletti non si limitano a imparziali decisioni tecniche ma rappresentano l’imposizione di condizionamenti indesiderati sulla società e sulle sue scelte. I movimenti prospettano alternative culturali che per imporsi devono assumere una dimensione politica.

Considero la politica culturale il processo che ha luogo quando attori sociali plasmati da o portatori di differenti significati e pratiche entrano in conflitto tra loro. La nozione di politica culturale presuppone che il significato e le pratiche culturali – specialmente quelle teorizzate come marginali, oppositive, minoritarie, residuali, emergenti, alternative, dissidenti, e simili, tutte concepite in relazione a un dato ordine culturale dominante – possono essere la fonte di processi che devono essere ritenuti politici. Che questo venga raramente riconosciuto, è dovuto più ad un riflesso di sclerotizzate definizioni di cultura politica piuttosto che essere una indicazione della forza sociale, efficacia politica, o rilevanza epistemologica delle politiche culturali. Una politica culturale ha il potenziale per ridefinire le relazioni sociali esistenti, culture politiche, e circuiti di conoscenza. La cultura diventa politica quando il significato diventa fonte di processi che, implicitamente o esplicitamente, cercano di ridefinire il potere sociale (Escobar 1997: 42).

I due obiettivi, risultati concreti rispetto a tematiche specifiche e autonomia complessiva delle prassi culturali, sono in realtà interconnessi: per far proliferare la cultura politica dell’autogestione i movimenti devono ottenere risultati tangibili sulle vertenze. Tuttavia, se il primo obbiettivo è valutabile con maggiore precisione e su un tempo circoscritto, il secondo si misura, invece, sul lungo periodo e riguarda, sostanzialmente, la capacità di far proliferare azioni di protesta; di diffondere la consapevolezza, il metodo e gli strumenti di lotta popolare; di promuovere una cultura politica che abbia come protagonista la comunità auto-organizzata piuttosto che le istituzioni. I movimenti, anche quando non rivendicano esplicitamente tale obbiettivo, prospettano un’alternativa sistemica: la sostituzione di una democrazia elettorale ingiusta, insensibile, impopolare con una democrazia diretta partecipata, solidale e attenta alle necessità dei cittadini (Graeber 2008).

I movimenti non sono quindi un sostituto delle istituzioni, né la loro espressione popolare, né un loro complemento, sono piuttosto l’espressione di una logica di gestione del potere egualitaria e condivisa che rivendica autonomia nelle decisioni e gestione diretta. E’ vero che spesso tradiscono questa volontà, facendosi istituzioni. E’ vero che la conflittualità con le istituzioni è spesso accompagnata da pratiche che mostrano una dipendenza ideologica e finanziaria dai poteri costituiti. Ma è vero anche che la peculiarità e la forza di attrazione dei movimenti si fonda sulla partecipazione orizzontale, sull’azione diretta, sull’autogestione, ovvero sulla concretizzazione di logiche opposte a quelle istituzionali. Queste logiche tracciano una prospettiva che è al contempo politica, ovvero riguarda la distribuzione del potere, e culturale, ovvero è applicabile ad ogni aspetto del vissuto sociale. Ora questi poteri sono concentrati in organi, aziende e istituzioni coordinate dallo Stato, monopolista della sovranità legittima. I movimenti, opponendosi alla sovranità statale, pongono la questione cruciale e imprescindibile di una distribuzione diffusa del potere: una ri-localizzazione delle decisioni dai palazzi alle piazze, dalle istituzioni alla società.

SULL’AUTORE: http://www.eleuthera.it/scheda_autore.php?idaut=144

Bibliografia

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Abu-LughodL. (1990), The romance of resistance: tracing transformations of power through Bedouin women, “American Ethnologist”, v. 17, n. 1, pp: 41-55.

Albro R. (2005), ‘The Water is Ours, Carajo!’ Deep Citizenship in Bolivia’s Water War, in: Nash J. (a cura di) Social Movements. An Anthropological Reader, Blackwell, Oxford, pp: 249-271.

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Pubblicato in amici, anarchia, socialismo, vetrina editoria | Commenti disabilitati su Strumenti analitici per uno studio dei movimenti sociali (di Stefano Boni)

6^a Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria (Firenze 4-5-6 ottobre 2013)

 

Programma

 

Adesioni

 

 

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Musica e Strada

Da poco tempo amici miei assidui lettori di questo blog ho intrapreso un esperienza che,non senza difficoltà sto portando avanti:quello di musicista di strada.Sono batterista, questo comporta il piacere di ingegnarsi tutti i giorni nella ricerca di oggetti che possano produrre suoni gradevoli e ritmati e, non vi nascondo che è divertente, come ricerca e stimolante come produzione

Non faccio retorica alternativa nell’affermare che è una boccata di aria fresca.Come avrete capito il tema portante di molti articoli è la ricerca di una strada diversa da quella imposta dagli schemi della società, un percorso di lotta individuale che ha come obiettivo la soddisfazione della persona in maniera completa. Vi pongo questo quesito . avete il desiderio di vivere come volete?fatelo, troverete in CUSA un valido sostenitore e alleato alle vostre interiori ricerche

Siamo quello che vogliamo essere

Saluti Francesco

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Rimini sabato 26 e domenica 27 Maggio 2012, Quarto Incontro Nazionale della Rete per l’Educazione Libertaria

Si terrà  a Rimini da sabato 26 e domenica 27 Maggio 2012  il Quarto Incontro Nazionale della Rete per l’Educazione Libertaria.

Ci troveremo per due giornate di intenso confronto riflessione e discussione su argomenti e problematiche relativi all’educazione libertaria e alle scuole democratiche, in Italia e nel mondo.

L’appuntamento è fissato per sabato 26  alle 15 presso il camping Maximum di Rimini in Viale Principe di Piemonte 57.  L’incontro finirà domenica 27 maggio nel pomeriggio. LE ISCRIZIONI SI SONO CHIUSE IL 20 MAGGIO.

Di seguito il programma delle due giornate (sono possibili aggiornamenti).

PROGRAMMA DELL’INCONTRO

Sabato 26 maggio

  • ore 15.00: Saluti e introduzione alla giornata (a cura di Ass. Zero in condotta e Gabriella Prati)
  • ore 15.45Intervento/intervista ai genitori e agli insegnanti della scuola democratica Kapriole – Friburgo, Germania (a cura di Irene Stella)
  • ore 16.30: Pausa caffé
  • ore 17.00: Avvio dei Gruppi di lavoro:
  • Presentazione EUDEC – rete europea per l’educazione democratica (moderatori Colin Hirsch e Marco Murdolo)
  • Come la ricerca universitaria affronta l’educazione libertaria (moderatrici Ilaria Milanesi e Sara Gioia)
  • Discussione sull’educazione libertaria a partire dal libro “Liberi di imparare” (moderano gli autori Francesco Codello e Irene Stella)
  • Il ruolo dell’insegnante in una scuola democratica (modera Marina Noussan, insegnante della scuola Kapriole di Friburgo)
  • ore 19:00Chiusura dei gruppi di lavoro e condivisione conclusioni
  • ore 20:00: Cena
  • dalle 21:00: Balli, chiacchiere, canti, risa, sonno

Domenica 27 maggio

  • ore 8.00: Colazione
  • ore 9.15-11.00: Avvio dei Gruppi di lavoro – prima parte:
  • La quotidianità in una scuola democratica – Proiezione documentario Kapriole
  • Essere genitori libertari (modera Francesco Codello)
  • Educazione libertaria e scuola statale: perché e come? (modera Maurizio Giannangeli)
  • Realtà in partenza o partite, spazio per confronto e scambio di esperienze (moderano Gabriella Prati – Saltafossi e Giulio Spiazzi – Kiskanu )
  • La scuola che vogliamo (interventi/testimonianze di bambine/i & ragazze/i delle scuole libertarie)
  • ore 11.15-13.00: Avvio dei Gruppi di lavoro – seconda parte:
  • Riflessioni su natura e tecnica nell’educazione libertaria (modera Filippo Trasatti)
  • Esperienze di scuole libertarie in altri paesi (modera Antonella Verdiani)
  • Il ruolo dei genitori nelle scuole libertarie (moderano i genitori di Friburgo)
  • Philosophy for children: una possibile esperienza di pensiero libero (modera Silvia Bevilacqua)
  • ore 13:00: Pranzo
  • ore 14:30: Conclusioni e saluti (modera Francesco Codello)
  • Chiusura gruppi di lavoro, condivisione conclusioni e presentazione del sito della rete

Sono previste pause caffè nell’ arco della giornata e uno spazio gioco per bambini.

CONTATTI

Per informazioni sull’incontro scrivere a incontronazionale@educazionelibertaria.org.

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Solidarietà alla lotta dei lavoratori dell’ospedale di Kirkis come spunto per la lotta di tutto il popolo greco

IN GRECIA SI OCCUPANO E AUTOGESTISCONO GLI OSPEDALI PUBBLICI!

Secondo una dichiarazione (4-02-2012) pubblicata dall’assemblea generale dei lavoratori dell’Ospedale Generale di Kirkis, i medici,gli infermieri e dell’altro personale,dichiara che i problemi di lungo corso del Sistema Sanitario Nazionale (ESY) nel paese non possono essere risolti attraverso limitate richieste di risarcimento del servizio sanitario. Pertanto i lavoratori dell’Ospedale Generale rispondono al fascismo del Potere occupando questo ospedale pubblico e ponendolo sotto il loro diretto e completo controllo. L’organo decisionale per le questioni amministrative sarà l’assemblea generale dei lavoratori. Sottolineano inoltre che il governo greco non ha assolto ai suoi obblighi finanziari verso l’ospedale. I lavoratori denunceranno tutte le autorità competente alla pubblica opinione e, se le loro richieste non saranno soddisfatte,si rivolgeranno ai comuni,alla comunità locale e non, per avere un supporto di qualunque tipo possibile per aiutare i loro sforzi:per salvare l’ospedale e difendere la sanità pubblica, per rovesciare il governo e ogni politica neo liberista. La prossima riunione generale di tutti i dipendenti si terrà nella mattinata del 13 febbraio. La loro assemblea avrà luogo giornalmente e sarà l’organo principale per ogni decisione concernete i lavoratori e l’operatività ospedaliera. I lavoratori chiedono la solidarietà fattiva dei cittadini e dei lavoratori di tutti i settori, per il coinvolgimento dei sindacati e delle organizzazioni progressiste, e per il sostegno dei media dell’informazione reale. Essi faranno anche una relativa conferenza stampa il 15 febbraio,alle ore 12.30. Tra gli altri si invitano i colleghi degli altri ospedali a prendere decisioni appropriate,nonché i dipendenti del settore pubblico e privato a fare lo stesso.

Tradotto dal sito ContraInfo

Segue il comunicato integrale.

 

L’ospedale della cittadina di Kilkis in Grecia è stato occupato dai lavoratori che hanno organizzato una conferenza pubblichiamo il loro appello. Al di là dei limiti, riteniamo che sia un passaggio importante, che esprime un salto di qualità nelle mobilitazioni in Grecia, dove i lavoratori iniziano a capire la loro effettiva forza. Inoltre proprio per il settore sanitario coinvolto, e il suo ruolo nella società nel suo complesso e la sua dimensione corporativa rappresenta un importantissima dimostrazione di come si può oggi generalizzare la lotta.

Redazione Connessioni

I lavoratori dell’ospedale di Kilkis: medici, infermieri e il resto del personale che ha partecipato alla Assemblea Generale ha concluso che:

1. Riconosciamo che i problemi attuali e persistenti del Ε.Σ.Υ (il sistema sanitario nazionale) non possono essere risolti con richieste specifiche e isolate o richieste che servono i nostri interessi particolari, dal momento che questi problemi sono il prodotto di una più generale e anti- popolare politica di governo e del neoliberismo globale.

2. Riconosciamo, inoltre, che, insistendo nel sostenere questo tipo di rivendicazioni contribuiamo al gioco spietato dell’autorità. Tale autorità, che, al fine di affrontare il suo nemico – cioè il popolo, indebolito e frammentato, vuole impedire la creazione di un fronte unito dei lavoratori ad un livello nazionale e globale con interessi e rivendicazioni comuni contro l’impoverimento sociale a cui porta la politica.

3. Per questo motivo, mettiamo i nostri interessi particolari all’interno di un quadro generale delle rivendicazioni politiche ed economiche che vengono poste da una larga parte del popolo greco che oggi è sotto il più brutale attacco capitalista; rivendicazioni che per essere feconde devono essere sostenute fino alla fine, in collaborazione con le classi medie e inferiori della nostra società.

4. L’unico modo per raggiungere questo obiettivo è mettere in discussione, in azione, non solo la sua legittimità politica, ma anche la legalità dell’arbitrario potere autoritario e anti-popolare e della gerarchia che si sta muovendo verso il totalitarismo a larghi passi.

5. I lavoratori presso l’ospedale generale di Kilkis rispondono a questo totalitarismo con la democrazia. Occupiamo l’ospedale pubblico e lo mettiamo sotto il nostro controllo diretto e assoluto. L’ospedale di Kilkis, d’ora in poi sarà auto-governato e gli unici mezzi legittimi del processo decisionale amministrativo sarà l’Assemblea Generale dei lavoratori.

6. Il governo non è sollevato dai suoi obblighi economici sul personale e forniture per l’ospedale, ma se continueranno a ignorare questi obblighi, saremo costretti ad informare il pubblico di questo e chiedere al governo locale, ma soprattutto alla società di sostenerci in ogni modo possibile per:

(a) la sopravvivenza del nostro ospedale

(b) il sostegno globale del diritto per l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita

(c) il rovesciamento, attraverso una lotta comune popolare, dell’attuale governo e qualsiasi altra politica neoliberista, non importa da dove proviene

(d) una democratizzazione profonda e sostanziale, vale a dire, una società responsabile (piuttosto che un terzo partito) nel prendere le decisioni per il proprio futuro.

7. Il sindacato dell’ospedale di Kilkis, comincerà dal 6 febbraio, il blocco del lavoro, fornendo solo il servizio di emergenza, fino al completo pagamento per le ore lavorate, e all’aumento del nostri salari ai livelli a cui era prima dell’arrivo della troika (UE -BCE-FMI). Nel frattempo, ben sapendo qual è la nostra missione sociale e quali sono i nostri obblighi morali, proteggeremo la salute dei cittadini che vengono in ospedale, fornendo assistenza sanitaria gratuita a chi ha bisogno, chiamando il governo ad accettare finalmente le proprie responsabilità.

8. Decidiamo che una nuova assemblea generale si terrà, il Lunedi 13 febbraio nell’aula magna del nuovo edificio dell’ospedale alle ore 11, per decidere le procedure che sono necessarie per attuare in maniera efficace l’occupazione dei servizi amministrativi e di realizzare con successo l’auto-gestione della struttura ospedaliera, che partirà da quel giorno. Le assemblee generali si svolgeranno tutti i giorni e sarà lo strumento fondamentale per il processo decisionale per quanto riguarda i dipendenti e il funzionamento dell’ospedale.

Chiediamo la solidarietà del popolo e dei lavoratori provenienti da tutti i campi, la collaborazione di tutti i sindacati dei lavoratori e le organizzazioni progressiste, così come il supporto di qualsiasi organizzazione dei media che sceglie di dire la verità. Siamo determinati a continuare fin a quando i traditori che vendono il nostro paese e la nostra gente lasceranno. O loro o noi!

Le decisioni di cui sopra saranno rese pubbliche attraverso una conferenza stampa a cui tutti i mass media (locali e nazionali) saranno invitati Mercoledì 15/2/2012 alle ore 12.30. Le nostre assemblee quotidiane partiranno dal 13 febbraio. Informeremo i cittadini su ogni evento importante che si svolgono nel nostro ospedale per mezzo di comunicati stampa e conferenze. Inoltre, useremo tutti i mezzi disponibili per pubblicizzare questi eventi al fine di rendere questa mobilitazione un successo.

Chiamiamo

a) i nostri concittadini per mostrare solidarietà al nostro sforzo,

b) ogni cittadino ingiustamente vessato del nostro paese alla contestazione e all’opposizione, con azioni contro i suoi oppressori,

c) i colleghi di altri ospedali di prendere decisioni analoghe,

d) i dipendenti in altri settori del settore pubblico e privato e i partecipanti alle organizzazioni sindacali e progressiste a fare lo stesso, al fine di aiutare la nostra mobilitazione per assumere la forma di una resistenza e una rivolta dei lavoratori popolare e universale, fino alla nostra vittoria finale contro la elite economica e politica che oggi opprime il nostro paese e il mondo intero.

Lunedì 6 febbraio

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Laboratorio sulla decrescita – Roma, Forte Prenestino, Centocelle (già pubblicato il 15/01/12 su cusa.splinder.com)

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DALLA QUANTITA’ ALLA QUALITA’
Laboratorio sulla decrescita al mercato terra/Terra

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dal 15/1 la terza domenica di ogni mese

ore 15-15.45

piazza d’armi (tavolo tondo), C.s.o.a. Forte Prenestino

via Federico Delpino, Centocelle

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LA CRESCITA È IN CRISI:

PROVIAMO CON LA DECRESCITA

Di fronte a una crisi globale che è allo stesso tempo economica ed
ecologica, siamo sempre di più a cercare un nuovo modello, in cui la
prosperità non dipenda più dalla crescita quantitativa della produzione
e dei consumi, mito suicida utile solo al profitto di pochi.
Fare della crisi un’opportunità per cambiare strada richiede anche
conoscenze, capacità e riflessioni alternative a quelle su cui si è
fondato il modello capital-industrialista del petrolio e del cemento,
dello sfruttamento e della speculazione a danno del Pianeta e delle
generazioni future.

I mercati t/T sono luoghi di una economia diversa, fondata sulla
qualità invece che sulla quantità; col tempo sono diventati
incontri di una vera e propria rete comunitaria, che in questi
appuntamenti rinnova i suoi legami e i suoi sogni. Anche nel far
incontrare ambiti di solito separati, come il mondo rurale e
quello urbano, la vita e la lotta, l’utopia e la concretezza,
risiede l’importanza di questa esperienza. Con l’offerta di
laboratori in occasione dei mercati, terra/Terra intende
rafforzare queste potenzialità progettuali.

LAD, Libero Ateneo della Decrescita

ecoculture@inventati.org

CUSA

umanesimoanarchico@inventati.org

SPORTELLO INFORMATIVO c/o Bottega del mondo Kinkelibà,

via Macerata, 54 – Pigneto, lune piene (7/2, 8/3, 6/4…), h.17-19

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UNITI NEI NOSTRI DIVERSI ORIENTAMENTI (già pubblicato il 13/01/12 su cusa.splinder.com)

Pensando e ripensando a un nuovo argomento da trattare mi è venuto in mente il concetto di cultura. Che cosa è la cultura?l’insieme di nozioni imparate con l’intento di innaffiare la piantina dell’arroganza?che cosa rappresenta per noi Libertari questo valore?.
Aprire il cuore coltivare la propria parte interiore e altre tematiche simili per troppo tempo sono state monopolizzate da i rappresentanti delle religioni. L’essere umano puo’ vivere secondo voi senza il fardello del dogma imposto?
I miti che l’uomo ha creato nella storia erano liberi, panteistici, ispiravano al rispetto della natura, la veneravano. Alcuni miti nella loro bellezza sono sopravvisuti alla globalizzazione dell’omologazione odierna, l’interpretazione della morte come continuità di vita in un altra dimensione spazio temporale ad esempio,mondi paralleli al nostro che si uniscono,si scontrano e ritornano in equilibrio, una spiritualità individuale,un io trascendentale. “Le voglie sconfinate,la necessità di infinito”, un Io trascendentale, un vertice di ispirazione massima.
La società che ci viene imposta dalle oligarchie vuol cancellare tutto questo, un esempio l’uccisione degli ultimi 14 sciamani in Perù. Ogni aspetto deve essere considerato solo in maniera di consumo e produzione di beni e servizi. Si può limitare l’umano in questi miseri aspetti? secondo me no.
Una decrescita economica si appropria anche a una decrescita di pensiero. decrescita come riscoperta, decrescita non vuol dire regredire come molti benpensanti sostengono ma invertire una omicida tendenza che ci sta conducendo alla barbarie e all’autodistruzione di noi stessi e dell’ambiente che ci circonda.
Anarchia come soluzione di un andamento corruttibile, gettare alle ortiche i falsi valori, riscoprire il gusto della radicalità, la necessità di purezza,l’ardore verso l’ignoto e l’universalità di un credo come quello Libertario.
Uniti nei nostri diversi orientamenti, la notte che irradia il giorno la luna che cammina a braccetto con il sole una spiritualità ancestrale riscoperta che non avrà più bisogno di chiese

riscopriamoci ogni giorno per quello che vogliamo essere

Francesco

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Occupy Wall Street ascisse ed ordinate (già pubblicato lo 06/01/12 su cusa.splinder.com)

Bisognerebbe esserci stati, a Zuccotti Park, epicentro e quartier generale della fazione newyorkese di Occupy – alias indignados versione stelle e strisce – movimento nato appunto dalla sfida strategica di occupare la sede della borsa di Wall Street. Bisognerebbe esserci stati come bisognerebbe essere in ogni luogo e in ogni contesto di cui ci si vuole fare un’idea più chiara di quella che filtrano i vari mezzi di informazione più o meno indipendenti. E invece chi qui ed ora ne prova a scrivere si trova in Italia, dove lo scorso 15 ottobre a Roma è stata data un’ ennesima prova di ingenuità con l’annuncio di un’ ”insurrezione” abortita spontaneamente ancor prima di poter essere tentata proprio perché annunciata.

Già, forse bisognerebbe spiegarlo a quei geni da post di Indymedia che nessun fenomeno insurrezionale o rivoluzionario anche solo parzialmente riuscito nella Storia è mai stato preannunciato esplicitamente. Forse bisognerebbe dirglielo che la loro strategia è stata per la polizia delle più prevedibili, che in ogni tempo gli furono gradite, e conoscendo un po’ il sistema Italia non mi stupirei neanche se tanta astuzia avanguardista fosse stata opera di qualche simpaticone al soldo dei servizi segreti o delle forze dell’ordine.

Ma scurdammuce ‘u passat come dice ‘u Napule paesa’. E del resto si potrebbe obbiettare che anche Occupy Wall Street contiene già nella dicitura la propria stessa dichiarazione di intenti, e non è detto che se questa non ci fosse stata così apertamente il risultato non gli sarebbe stato più favorevole.

Ciò che c’è di sostanzialmente differente però fra i due fenomeni sono lo spessore e l’ampiezza di respiro maggiori e più duraturi che gli indignados d’America hanno saputo dare alle loro lotte. A cominciare dall’obbiettivo stesso che il movimento d’oltreoceano almeno inizialmente si è posto, e cioè appunto occupare la sede della più importante borsa mondiale così da sabotarne per quanto possibile le attività. Un obbiettivo che già d’entrata mi sembra più incisivo di fantomatiche guerriglie insurrezionali da consumarsi preferibilmente entro la data di scadenza della facile e scontata repressione poliziesca.

Certo, quello dell’assalto al palazzo del potere è un leitmotiv che ha attraversato trasversalmente svariati dei fenomeni spontanei o dal basso di insorgenza giovanile ma non solo che hanno animato gli ultimi anni di contestazioni. Al punto da diventare quasi l’unica vera unità di misura della riuscita di una data mobilitazione, rivelando una triste ambiguità di fondo di tutto un certo “non-potere” che sembra andare per la maggiore sulle ceneri della morte delle ideologie: se il valore di una tua contestazione si misura da quanto riesci ad avvicinarti a invadere fisicamente il centro del potere contro cui protesti, dove mezzi e fini tendono a coincidere significa che non riesci ad immaginare un percorso di lotta che porti ad un contesto alternativo dove quel centro di potere non esiste più; vuol dire che in qualche modo tu quella cosa lì la vuoi.

Ma se questa ambiguità può essersi annidata nel subconscio di qualche ragazzino londinese o di uno studente di qualche collettivo italiano, non mi pare che il problema riguardi Occupy, dove la lotta ha saputo andare oltre il mero simbolo del potere e porsi prospettive di cambiamento più propositive, pur con tutti i problemi che questo comporta. Primo fra tutti quello derivante dalla composizione sociale del suo zoccolo duro, quasi interamente formato da elementi della classe media statunitense mobilitatisi in difesa dei propri redditi e dei propri interessi contro l’attacco portato dalla finanza internazionale e dai politicanti alle sue dipendenze.

Lo si vede d’entrata già da quello che è stato uno dei cavalli di battaglia delle rivendicazioni espresse dal movimento, ovvero quel “siamo il 99%” tanto sbandierato in faccia a media e finanzieri fin dagli albori della mobilitazione. Una percentuale d’assalto che rivela un’ingenuità non minore di quella delle insurrezioni proclamate via Facebook o Indymedia.

Foucault e i post-strutturalisti avrebbero molto da dire a questa concezione, ricordando che il mondo non si divide in maniera così manichea fra oppressi ed oppressori, e che lottare per tutelare i redditi della classe media americana significa già difendere uno standard di consumi imperialista perché basato su sfruttamento di risorse e lavoro. A dover essere messo in discussione è invece il concetto stesso di crescita economica e di benessere, altrimenti Occupy si trasformerà nello stesso boomerang storico che già sono stati il New Deal ed il Welfare State (paradigmi guarda caso evocati dalle bocche di diversi esponenti del movimento): un modo di potare la pianta marcia senza però estirparla alla radice, permettendole così di ricrescere nuovamente e più rafforzata.

Certo, la volontà espansiva delle lotte negli indignados statunitensi, come già in quelli europei, è comunque una buona risposta a certe logiche minoritariste e avanguardiste che sembrano permeare più o meno consapevolmente gruppi come quelli che hanno proclamato “l’insurrezione” del 15 ottobre scorso a Roma. Forte di un dato oggettivo di partenza per il quale effettivamente è la grande maggioranza della popolazione ad essere penalizzata da una crisi prodotta principalmente da una ristretta élite (per quanto la proporzione percentuale proposta dagli attivisti mi paia comunque esagerata). Ma siccome la realtà è fatta sia dai dati oggettivi che dalle soggettività che li vivono, ed un idealismo soggettivista come quello che esprime Occupy è spesso figliol prodigo di reificazione, forse quel “siamo il 99%” dovrebbe trasformarsi allora in un più verosimile “vorremmo arrivare ad essere il 99%”. Posto che quella grande maggioranza può essere tale solo per ciò che riguarda la pars destruens, perché per quanto riguarda la pars construens ogni maggioritarismo rischia di essere spesso sinonimo di uniformazione.

Sì perché gli aspetti positivi in Occupy Wall Street e in tutte le mobilitazioni che ne sono variegatamente scaturite non mancano. A cominciare dalla strategia di lotta che si impernia su tattiche nonviolente di lunga durata, le quali oltre a favorire una partecipazione ed un protagonismo più diffusi riescono ad andare ben al di là delle singole battaglie che possono anche risultare perse o solo parzialmente riuscite, senza per questo scoraggiarne i militanti, anzi. Questo penso dipenda appunto dal fatto che lo stesso obbiettivo dichiarato del movimento, ovvero l’occupazione della borsa di New York, non viene assunto come paradigma assoluto e se pur considerato fondamentale è inserito all’interno di un percorso progressivo incentrato sulla dimensione propositiva della lotta. La grande manifestazione diventa punto di arrivo di un processo costruito con un impegno a lungo termine e l’obbiettivo finale non è preteso in tempi immediati, diversamente da quanto può fare uno scontro di tipo frontale come quello che si è prodotto o è stato indotto a prodursi in altre manifestazioni sia europee che americane.

Certo, non è detto che alla fine gli stessi indignados non ci rimangano schiacciati in un’ ortodossia di Nonviolenza. Gli arresti negli States si sono susseguiti a centinaia secondo le stime, al cospetto di manifestanti che restavano inermi di fronte alla violenza delle manette. E l’effetto di lungo periodo di questa repressione è ancora incerto, anche se fino ad ora sembra che abbia avuto più che altro quello di aumentare la popolarità della protesta.

Certo, a New York non c’era l’aviazione che bombardava le città in mano ai ribelli com’è successo in Libia, e i giovani a stelle e strisce non hanno forse la stessa disperazione, frustrazione e senso di impotenza di quelli greci.

Ci sono poi alcuni altri aspetti controversi. Uno dei personaggi usciti alla ribalta di un movimento che – altro elemento che sembra positivo – dichiaratamente non vuole leader, è stato però un ex poliziotto in pensione finito sotto la luce dei riflettori per essersi fatto arrestare mentre manifestava in solidarietà, esortando i suoi ex colleghi a non rendersi schiavi mercenari di speculatori e lobby economiche. Da un lato viene da ricordare il fatto che la storia dei fenomeni rivoluzionari più riusciti è anche storia di forze armate di regime che disertano per passare dalla parte dei ribelli (altra prospettiva più difficile se si cerca d’entrata uno scontro di tipo frontale con le forze dell’ordine). Dall’altro è impossibile non farsi un’endovena leggendo con quale compendio di buonismo e retorica populista da buon cittadino democratico l’ex poliziotto in questione viene presentato come difensore dei veri valori del Sogno Americano e della vera missione delle forze armate a stelle e strisce.

Lo stesso dicasi per quanto riguarda il supporto, anche logistico, alla fazione newyorkese da parte di una chiesa episcopale all’angolo di Wall Street, sostegno concretamente prezioso ma che come qualsiasi libertario sa pone non pochi problemi riguardo alla radicalizzazione che un’organizzazione religiosa è in grado di accettare da parte di un movimento dissidente che sostiene.

E sembra essere proprio questo in definitiva – la sua capacità o meno di radicalizzarsi – il nodo cruciale intorno al quale ruotano le sorti di un fenomeno di insorgenza dal quale prendere spunto per provare a mettere in moto dei processi di lotta che non si esauriscano andandosi a schiantare contro il muro della prima, ahimè inevitabile, repressione. E Occupy forse qualche passo in questa direzione, sia pur embrionale, lo ha fatto, organizzando occupazioni di case espropriate dalle banche nei quartieri est di New York e promuovendo uno sciopero generale ad Oakland ed altri minori, e solo in parte riusciti, in altri porti del Pacifico.

Le maggiori risorse materiali ed energie mentali della classe media dissidente ma privilegiata, devono continuare ad indirizzarsi ed avvicinarsi alle stratificazioni sociali più basse per arrivare a sviluppare veramente una forza in grado di minare il sistema tutto alle sue fondamenta, e non limitarsi a togliergli il cappello per lasciarne intatto il corpo sociale.

Le coordinate cartesiane di Occupy Wall Street aprono molte prospettive sull’asse orizzontale, ma hanno ancora della strada da fare su quella verticale.

 

Edoardo

Pubblicato anche su A-rivista anarchica

Pubblicato in attualità | Commenti disabilitati su Occupy Wall Street ascisse ed ordinate (già pubblicato lo 06/01/12 su cusa.splinder.com)