Contro la legalizzazione della marijuana – di una che vorrebbe potersi tranquillamente coltivare una piantina sul proprio balcone

Avviso ai lettori: questo articolo non è la solita pippa morale su quanto la droga faccia male. Come si può leggere nel titolo, la sottoscritta è la prima che vorrebbe una piantina da coltivare sul balcone per poi poter raccogliere i frutti (o meglio i fiori) del suo lavoro e fumarseli tranquillamente sdraiata sul suddetto balcone, mentre prende il sole in un caldo pomeriggio autunnale e nell’aria si spandono le grida dei gabbiani.

Inoltre posso garantire che nessuno più di me sia convinto del fatto che, se presa in giuste misure e con coscienza, la droga in generale, e non solo la canapa, può avere migliaia di effetti benefici sul nostro corpo e la nostra psicologia. Per finire, ci sono talmente tante cose che fanno male a questo mondo e che ci tocca sorbirci quotidianamente senza nemmeno chiederci il perché (non ci siamo mai posti il problema, ad esempio, che la coca cola corroda lo stomaco, eppure la diamo ai bambini come bevanda analcolica al posto dell’alcool), che mi sembra stupido accanirsi contro una cosa che, anche volendo ammettere che faccia male, non è certo peggio di tutte queste altre cose. Se poi ci mettiamo a riflettere sulla distinzione che si fa tra certe droghe e altre di uso comune che non penseremmo nemmeno di chiamare tali (vedi il caffè, l’alcool, le patatine, e così via), il discorso rischia di prolungarsi. Mi sembra perfino superfluo ripescare quel vecchio ragionamento, (per quanto fondamentale esso sia), secondo il quale, a prescindere se una cosa faccia male o no, ognuno dovrebbe essere libero di scegliere di che morte morire.

Bene, mi fermo qui. Spero di avervi convinto di non essere una cattolica moralista proibizionista. Ho fatto questo preambolo per rassicurare possibili lettori che si imbattessero per caso in questo articolo. Poiché chiunque potrebbe rimanere stupito, o addirittura indignato, di trovare un titolo del genere su un blog che si dichiara anarco- pacifista e umanista. Adesso, certa che chi leggerà sarà più tranquillo e con meno pregiudizi, posso venire al dunque.

Lo scopo non è parlare della marijuana, ma della sua legalizzazione in questo contesto.

Io penso che ogni cosa abbia un suo contesto, e che anche ciò che sembra più giusto, in un contesto sbagliato, rischia di diventare sbagliato (dato che i significati di giusto e sbagliato sono essi stessi di per sé relativi).

Viviamo in uno stato con un’economia capitalista che si interfaccia con una serie di altri stati con la stessa economia capitalista, la quale economia ha come scopo quello di far diventare sempre più ricchi pochi esseri umani privilegiati e affamare, sfruttare e opprimere le altre milioni di persone che vivono sulla terra. Anche qui, direi che non sto dicendo niente che non si sappia già, perciò non mi dilungherò sull’argomento.

Vorrei invece fare una piccola riflessione su come adesso questo sistema economico sia in crisi e su come questa crisi sia l’occasione unica che abbiamo per affossare definitivamente il capitalismo e ripartire con un’economia più umana, davvero vicina ai bisogni delle persone, reale e non virtuale, basata sull’autoproduzione o sulla produzione a scala locale anziché globale, sullo scambio, e sulla redistribuzione della ricchezza, in modo che non vi siano ricchi e poveri.

Vi immaginate, dunque, cosa potrebbe succedere se, in questo contesto, in uno stato capitalista, parte di un sistema capitalista globale, venisse legalizzata la marijuana? L’economia si riprenderebbe in un istante, probabilmente ci sarebbe un secondo “boom”, in cui ritornerà a circolare una grossa quantità di denaro, per poi ritrovarci, tra trenta, quarant’anni, in una grossa nuova crisi, e nel frattempo, mentre poche persone si arricchirebbero a dismisura, una parte consistente della popolazione (ma sempre piccola) potrebbe godere di un lavoro “fisso” e un “salario proporzionato”, per poter comprare e consumare nei negozi di alta moda e nei centri commerciali, e la maggior parte della gente si ritroverebbe come sempre a lavorare da schiava per pochi spiccioli, per poter mantenere ancora questo sistema che arricchisce i ricchi e affama i poveri.

 

Ritornando al tipo di stato in cui ci troviamo a vivere mi viene in mente una seconda considerazione. Uno stato repressivo, che ha chiamato democrazia il suo sistema di potere dittatoriale per mascherarlo bene e distinguerlo dalle dittature fascista e nazista che hanno messo a ferro e fuoco l’Europa per due decenni.

Sorge spontanea una domanda: uno stato del genere può in qualche modo legalizzare la canapa per realizzare il sogno di quanti (prima fra tutti la sottoscritta) vorrebbero potersi “autoprodurre”? Questo sarebbe un passo in avanti per un tipo di economia alternativa, di cui parlavo sopra, per la quale l’autoproduzione non riguarderebbe solo la canapa, ma anche altri generi, alimentari e d’altro tipo, che oggi sono monopolio delle multinazionali. È evidente che ci sono interessi ben diversi, e che, se la canapa venisse legalizzata, ci sarebbe pur sempre una pena da scontare.

Pensate alle droghe che sono diventate legali: le sigarette, l’alcool e, quella che droga non si considera, ma di fatto lo è: il gioco d’azzardo. Tutte monopolio di stato sulle quali lo stato si fa un sacco di soldi. Non solo. Tutti mezzi con cui lo stato tiene sott’occhio le persone. Le sigarette tengono chi ne diventa dipendente in stato di ansia perenne che viene appagato soltanto con altre sigarette. Il superenalotto è giocato ogni giorno da migliaia di persone che tentano la fortuna, e vivono facendo statistiche sui numeri che potrebbero uscire, senza rendersi conto che ad ogni estrazione, la probabilità che esca un numero è sempre la stessa rispetto all’estrazione precedente, perché ogni volta la quantità di numeri da estrarre è la stessa. Il win for life regala ogni giorno a qualcuno piccole somme di denaro, con le quali, chi le vince, può farsi un po’ di spesa per la settimana o pagarsi i biglietti degli autobus. Ma l’illusione di aver vinto qualcosa non tiene conto delle spese fatte per vincere questo qualcosa. Le scommesse sul calcio tengono occupata un sacco di gente, che così può sfogare tutte le preoccupazioni sull’”arbitro venduto” che, non sapendo bene dirigere la partita, ha ingiustamente favorito una squadra anziché un’altra, oppure sull’allenatore incapace che non sa fare le formazioni delle squadre.

Così la gente viene appagata in qualche modo dalle frustrazioni della propria vita quotidiana, e può ignorare i suoi problemi reali, non interrogandosi nemmeno sul perché debba essere costretta a vivere in un certo modo e non facendo nulla per cambiare lo stato di cose attuali.

Alla luce di ciò, (non mi dilungherò oltre sull’argomento, perché sono certa che chi leggerà questo articolo sa benissimo tutte queste cose e le saprebbe spiegare anche meglio di come faccio io) mi chiedo ancora:

in uno stato del genere, una cosa come la canapa, che dovrebbe essere simbolo di una libertà conquistata, non rischia paradossalmente di diventare uno strumento di oppressione e limitazione della libertà individuale?

 

Kukumi 88

 

*La foto è stata presa da: http://notizie.tiscali.it/articoli/cronaca/10/09/14/superenalotto-intervista-romito.html

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15 febbraio: libertà senza frontiere

 

Tanto ci sarebbe da dire sulle condizioni dei migranti in Italia:

su chi, dopo aver viaggiato stipato con altre 600 persone in barconi molto piccoli, muore in mare, quando questi barconi affondano in acque considerate internazionali, dove non vigono le leggi di nessun Stato e dove perciò nessuno Stato si prende la briga di ripescarli;

su chi riesce a sbarcare sulle coste siciliane e viene spedito (se non in ospedale) immediatamente nei centri di accoglienza, dove deve rimanere recluso per un certo periodo di tempo, lungo quanto non si sa, in attesa di ricevere un foglio di via, che gli intima di andar via dall’Italia, o di essere in condizione di poter richiedere un permesso di soggiorno;

su chi protesta contro le condizioni in cui è costretto a vivere all’interno dei CIE e ottiene solo repressione;

sulle pratiche burocratiche che uno straniero appena sbarcato in Italia deve affrontare per chiedere il permesso di soggiorno e sulla necessità di accettare un contratto di lavoro a qualsiasi condizione pur di avere questo foglio, oltre che sui tempi infiniti di attesa per l’accettazione della richiesta: il che rappresenta l’unica speranza per non marcire in un “centro di accoglienza” o non essere rimandato in patria.

 

I CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione, sono le strutture che, anche se hanno cambiato nome e aspetto in questi anni, sono sempre delle vere e proprie prigioni nate da una necessità (fittizia) di gestire la cosiddetta “emergenza immigrati”, dove l’unico reato è quello di essere “clandestini”. Sono strutture dove non è garantito alcun diritto, dal più elementare servizio igienico al più semplice diritto civile, ma dove soprattutto non viene minimamente riconosciuta l’essenza stessa dell’essere umano.

Mentre lo Stato calpesta la dignità umana in questo modo barbaro e palese, nei luoghi dove sorgono i CIE, molti abitanti, spesso fomentati da movimenti di stampo fascista e razzista, mal tollerano i CIE con la scusa che “queste strutture sono pagate dai soldi pubblici” e “gli onesti cittadini danno allo stato 200.000 euro l’anno per mantenere persone che non fanno nulla dalla mattina alla sera e vivono là dentro come re”.

Troppe cose infatti si raccontano su questi luoghi di morte e miseria e troppe non si conoscono o si pretendono di sapere.

 

Come anarchici rifiutiamo i crimini commessi contro i migranti sia dallo Stato, sia da quanti considerano i migranti una categoria di persone da scacciare e da reprimere. Rifiutiamo l’idea che degli esseri umani siano trattati alla stregua di bestie, per il semplice fatto di non essere “italiani” e spesso con il reato di essere “clandestini”. Vogliamo che questo termine sparisca dal nostro vocabolario.

Volenti o nolenti, come già in molti altri paesi europei, gli “stranieri” fanno sempre più parte della nostra comunità, che diventa sempre più un amalgama di culture e di esperienze diverse. Una comunità così cresce e si arricchisce. Del resto la nostra stessa cultura “italiana” di cui tanto qualcuno va fiero, è il frutto di quella che si potrebbe chiamare una “contaminazione” (tanto per usare per una volta in senso positivo un termine che di solito non ci piace) avvenuta nel corso dei secoli.

 

Chiudiamo i CIE e abbattiamo le frontiere. Tutte, le frontiere.

 

CUSA

*La foto è stata presa da: http://bousufi.blogspot.it/2011/11/il-prezzo-del-patriotismo.html

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La logica della vita

“C’è una logica nella formazione della vita, c’è un legislatore che ha stabilito delle regole, per questo noi abbiamo uno scopo. Se tutto nascesse dal caso, la nostra vita non avrebbe un fine.”

Assunta non ne era mica sicura.

Innanzitutto, se si voleva prendere in considerazione il fatto che la vita fosse ordine, bisognava fare i conti con la fisica: Assunta non ne era una gran sostenitrice, ma non poteva certo ignorare che principio sempre dimostrato e finora mai smentito, era che l’universo andava verso il caos e qualsiasi tentativo di mantenere qualcosa di ordinato andava contro questo principio, perché era un tentativo di muovere al contrario il flusso di energia unidirezionale che muoveva l’universo.

Perciò se c’era un creatore che aveva creato la vita per andare contro il caos e dare un senso a tutto, ci doveva essere stato prima di lui una sorta di creatore “superiore” che aveva creato l’universo per farlo avanzare inesorabilmente verso il caos. O perlomeno ci sarebbero state almeno due forze assolute in contrasto tra loro, il che poteva anche essere una spiegazione plausibile alla formazione dell’universo e della vita, ma poneva seri problemi all’idea monoteista cattolica per cui esisteva un unico dio e quindi un’unica entità che aveva creato tutto secondo una logica.

Ma a parte la fisica e a parte questo discorso dai risvolti infiniti che rischiava di diventare altamente ingarbugliato e non si poteva certo risolvere così su due piedi, c’era un’altra questione che non si poteva ignorare.

Chi aveva detto che la vita era ordine?

L’intera storia della vita dimostrava che questa era un continuo caos.

Stando alle teorie scientifiche, le prime forme di vita dovevano essere semplici e bastavano a sé stesse. Potevano vivere in acqua o sulla terra, avevano ciò che bisognava loro per trasformare le sostanze che trovavano in altre che gli servivano per sopravvivere e riprodursi. Invece la vita era andata oltre, aveva assunto forme sempre più diverse e complesse, senza però definire un percorso lineare e gerarchico, ma facendo a volte quello che secondo una visione evoluzionistica si potrebbe definire “qualche passo in avanti”, a volte ritornando sui suoi passi. Ovvero, l’“evoluzione” non partiva da esseri semplici e piccoli per arrivare ad esseri più grandi e complessi. Né tanto meno esseri nuovi che si creavano erano migliori di quelli precedenti. Tutte le forme di vita erano semplicemente molto diverse fra loro. Alcune erano in grado di respirare sott’acqua, altre di correre sulla terra e altre addirittura di volare. Alcune erano minuscole, altre enormi. C’erano persino quelle che nelle profondità del mare potevano vivere senza ossigeno e senza luce. La vita si poteva formare anche all’interno di altra vita. Tutto questo non poteva avere una logica, pensava Assunta. Non c’era un disegno stabilito. Anche volendo pensare che esistesse effettivamente un creatore, sembrava piuttosto che si trattasse di qualcuno che si divertiva a “giocare” con ciò che aveva a disposizione, aria, acqua, sole, terra per creare migliaia di forme, colori, strutture diverse. Come un pianista che con pochi tasti e sette note crei una gran varietà di combinazioni musicali, o un pittore che con i tre colori fondamentali crei tutte le sfumature possibili e immaginabili.

Una logica nella vita si poteva trovare “dopo” che le forme di vita si erano “create” e che avevano stabilito dei rapporti tra di loro. Ma questi rapporti non erano destinati a durare per sempre e di conseguenza le stesse singole forme di vita si modificavano, perciò bastava un niente nella storia della vita e tutto cambiava, si creavano nuovi esseri e nuovi rapporti tra questi.

Tra le miriadi di esseri strani comparsi sulla terra c’era l’essere umano. Quello che da un punto di vista prettamente scientifico, era uno dei tentativi più azzardati della vita, un insieme di strutture estremamente complesse che per funzionare richiedeva un quantitativo enorme di energia. Al di là del punto di vista scientifico, era innegabile che l’essere umano fosse diverso dalle altre forme di vita e che, se anche fosse sparito, avrebbe lasciato un segno del suo passaggio su quella terra (nel bene e nel male). Ma al di là di ciò non si poteva pensare, come avrebbero voluto i cristiani, che fosse l’essere destinato a controllare e avere in mano l’intero “creato”. E questo per due ragioni: l’essere umano non era né l’ultimo essere apparso sulla terra, né quello superiore.

Poteva certo costruire mezzi per respirare sott’acqua, ma se si tuffava affidandosi soltanto al naso e alla bocca, poteva resistere trattenendo il respiro soltanto pochi minuti; aveva costruito degli strumenti per volare, ma se si librava in aria con la sola forza delle sue gambe poteva rimanervi per pochi istanti e issarsi per pochi centimetri, stando poi bene attento a posizionare i piedi una volta ricaduto al suolo per evitare di sfracellarsi. Che non fosse l’ultimo essere vivente apparso sulla terra, lo dimostrava il fatto che anche distruggendo intere foreste di alberi secolari, il suo territorio era perennemente invaso da piante di vario tipo che potevano crescere sull’asfalto, sulla pietra e sul cemento; o il fatto che con l’ausilio di armi da fuoco poteva fare strage di interi branchi di animali feroci e anche più grossi di lui, ma bastava una forma di vita minuscola che si inserisse in qualche sua parte vitale a provocare centinaia (o anche migliaia) di morti nelle comunità umane.

C’era poi un’altra questione: tutto ciò che era considerato “non vita”. Certo, la vita e la “non vita” erano distinguibili per il fatto che la vita fosse costituita (sempre da un punto di vista scientifico) da materia organica che era in grado per qualche motivo di rispondere agli stimoli esterni. Inoltre, la vita era anche in grado di creare stimoli. La “non vita” era materia inorganica che non aveva la stessa capacità di reazione agli stimoli esterni. E tuttavia la vita e la non vita non erano separabili. La vita si formava da ciò che non aveva vita, le sostanze base che la componevano erano le stesse che formavano anche i sassi e le rocce (anche se le strutture formate erano diverse). Tutto ciò che poteva essere considerato secondo un certo punto di vista “inanimato”, anche se soggetto a (e frutto di) continui cambiamenti che avvenivano nel corso di tempi lunghissimi ed estranei a quelli della vita, era necessario perché un insieme di energia e materia potesse staccarsi da questo mondo “inanimato” e creare delle entità autosufficienti.

Insomma, la vita non poteva essere frutto di un creatore. Quale fosse la causa, di certo Assunta non lo sapeva, ma la conclusione a cui era arrivata era che la vita fosse qualcosa che formandosi da ciò che era “inanimato”, ed essendo essa stessa materia ed energia insieme, trovava in sé stessa la forza e il modo di esistere. Non una divinità o un’entità eterna. Ma “qualcosa” che per qualche strano motivo era diventato in grado di avere dei bisogni e soddisfarli, di rispondere agli stimoli e crearli.
Certo, Assunta doveva considerare che si trovava pur sempre a parlare con un poliziotto. E per un uomo che sta al servizio della legge, l’universo intero non avrebbe avuto senso se qualcuno non avesse dettato delle regole. Chissà poi perché di punto in bianco, dal nulla, aveva tirato fuori quel discorso.

Voleva forse metterla in guardia da qualcosa con le sue affermazioni? O semplicemente richiamarla “all’ordine”? O metterle paura? E comunque la questione non si poteva certo liquidare in poche righe che lasciavano la questione aperta ad una serie di possibili critiche e riflessioni ulteriori.

In ogni caso Assunta non avrebbe certo aspettato le risposte di quell’ex poliziotto, ora portiere di palazzi. Forse si sarebbe confrontata con lui. Forse. Perché non si fidava di uno che un minuto prima le diceva che poteva darle le risposte che andava cercando e quello dopo affermava che secondo lui era importante confrontarsi con gli altri, perché dagli altri c’era sempre da imparare.

Inoltre, il primo “confronto”, che Assunta aveva cercato di ridurre al minimo indispensabile (in realtà aveva solo ascoltato, dando risposte evasive alle sue domande), rischiava già di prendere la piega di un dibattito “scienza- religione”. E Assunta, per quanto sicuramente propendesse più per la prima che per la seconda, non aveva nessuna intenzione di difendere la scienza a tutti i costi e di affermare la verità scientifica come assoluta. Per lei la questione era più complessa, anzi la sua idea era proprio quella che alla verità assoluta non si poteva arrivare. Perciò tacque, non disse più nulla e salutato l’uomo, uscì dal palazzo. Ma più tardi, decise che quell’uomo meritava comunque una risposta da parte sua. Riordinò i pensieri nella sua testa per quanto possibile e si mise a scrivere.

Kukumi 88

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Evoluzione

La costanza delle azioni, osservare anche solo il minimo punto e considerarlo importante, giorno dopo giorno. Noi siamo la terra e le nostre azioni sono l’acqua che da nutrimento alla terra.
Ogni ciclo finisce per fare spazio a un altro che ricomincia, lo testimonia la storia lo testimoniano i popoli. E’ attraverso la ciclicità che si attua il cambiamento, sfidare i nostri demoni e trovare pace dentro noi stessi, arrivare a una calma battagliera.
Non abbiate paura di niente, tutti noi siamo la goccia nell’oceano che fa dell’Oceano stesso la meraviglia e la sublime bellezza.
A partire dall’adolescenza fino a ora mi sono sempre domandato, quale possa essere il pensiero che più si avvicina alle esigenze dell’essere umano, e come risposta ora mi sono dato: è l’essere umano stesso il pensiero forte, l’Umanesimo Combattivo.

Voi sicuramente leggendo questo punto direte: mah è banale!

Appunto!
La semplicità è la forza, non cercate teorie astruse e intrise di nozionismi. Diffidate del pensatore che vuole farsi grande al vostro cospetto con grandi parole, non fate di voi un santone su una nuvola perché siete stufi di questa società.
Cambiate questa società a partire dalla vostra quotidianità, non mettete niente in secondo piano, ogni relazione che coltivate è diamante lucente, ogni gesto ponderatelo con cura. E alla fine della serata chiedetevi, sdraiati nel letto, con un bel caffè e una bella sigaretta, come è andata la mia giornata?

Sono soddisfatto?
Se la risposta è sì, continuate così e sarete grandi.
Evolvetevi in ogni istante, non lasciate un minino vostro sogno intentato.

 

Io sarò sempre con Voi

 

 

Francesco (Leon) Albino

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Generazione siberiana (di Stefano d’Errico)

 

L’ARTICOLO CHE SEGUE È STATO SCRITTO DA STEFANO D’ERRICO, SEGRETARIO NAZIONALE DEL SINDACATO DI BASE ANARCHICO DELLA SCUOLA UNICOBAS. È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO DI NOVEMBRE 2013 DI “A” RIVISTA ANARCHICA ED È STATO SCARICATO DAL SITO DELLA RIVISTA: http://www.arivista.org/?nr=384&pag=40.htm

 

 La maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. La “buona educazione”, spesso giudicata una pratica conformista e quindi rifiutata soprattutto in campo giovanile, non potrebbe essere invece una parte significativa della nostra etica e del nostro progetto rivoluzionario, contro il Potere?

 

Il film di Salvatores sulla miglior “scoperta” letteraria di Saviano (Nicolai Lilin,Educazione siberiana, 2008) stimola molte riflessioni. Innanzitutto di stampo etico e sociologico rispetto alle trasformazioni intervenute con la globalizzazione (e non solo) nel mondo “marginale”. È evidente il significato indicato dai valori vissuti e trasmessi nella collettività siberiana degli “esclusi”: una comunità di fatto multietnica (e una morale) aventi come base quel Mir solidarista che studiarono Kropotkin e Marx, “ristrutturata” d’autorità in più di settanta anni di repressione sovietica verso una “devianza” non certo solo criminale. Ma, come mostra bene il film, anche quei valori sono oggi in via di estinzione (in particolare a causa di eroina e cocaina) con la mutazione genetica di una Russia passata molto in fretta dal capitalismo tecnoburocratico di stato al liberismo mafioso. Un liberismo nudo, scoperto e arrembante, assolutamente “all’occidentale”.

Ma i parallelismi con l’Italia vanno ricondotti a molti decenni fa. Da noi, il processo di “standardizzazione della delinquenza” è assai più datato, e va ricondotto agli anni ’70, all’esplosione della rivolta giovanile, studentesca, proletaria e sottoproletaria: all’emergere di ciò che venne definito il fenomeno delle “due società”.

La diffusione delle droghe pesanti (parallela alla criminalizzazione di quelle leggere), fu il primo e principale veicolo usato dal dominio per fiaccare i movimenti e inquinare in profondità, proprio sotto il profilo connettivo e culturale, le periferie urbane e metropolitane, fin nei più sperduti paesi di provincia.
Il welfare mafioso precede e fa strada al liberismo e alla successiva, conclamata, privatizzazione. Parliamo della scomparsa graduale dell’assistenza e della presenza pubblica, della quale le mafie inizialmente s’appropriano in sinergia con il ceto politico prevalente, in un legame strategico e strutturale. Era già successo negli Stati Uniti, innanzitutto col proibizionismo sugli alcolici, poi con quello sulla droga, e proprio grazie alla cosiddetta (iperliberista) “tolleranza zero”.

La sub-cultura del dominio

Esiste però anche una versione “politicamente corretta” e di “sinistra” che si sovrappone all’immagine della piccola malavita: quella del minculpop antagonista. Ciò che (con molta enfasi e pari esagerazione) veniva definito “proletariato giovanile” venne profondamente assimilato alla causa della marginalità. Ha assunto abiti e maschere indotti, ha acquisito uno stile di vita specificamente (e volutamente) altro, in omaggio ai diktat di parametri ideologici inquinati a tal punto da risultare palesemente innocui per gli equilibri di potere.
Veri e propri cavalli di Troia “spacciati” nei quartieri insieme a droga, ottusità, violenza e intolleranza (anche politica): e fra questi il mito della maleducazione.
Indisciplina etica per definizione, la maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. A partire dalla diseducazione politica, che insegna a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore (quella del “tanto peggio – tanto meglio”), per arrivare fatalmente alla più generica diseducazione sociale e individuale.
Viene sdoganata così la condanna del mondo valoriale in quanto tale, semplicisticamente ridotto alla stregua di vieto moralismo, nonché del rispetto stesso (e del confronto), parificati a debolezza. Il tutto tramite la parificazione della solidarietà a mera dinamica di gruppo (o branco), ma a patrocinio individuale. In una confusione più unica che rara, le regole non scritte del socialmente “deviante” (tout court) assurgono al rango di comportamento rivoluzionario e anti-sistema: un infingimento davvero micidiale proprio nella fase del maggior assorbimento della devianza stessa ai sub-valori del consumismo dominante.
Non è per nulla sovversivo, infatti, tagliare con l’accetta i giudizi politici. Ciò succede quando, ad esempio, vediamo la critica allo stato di Israele diventare implacabilmente antisemitismo di sinistra e parallela acriticità assoluta rispetto all’operato delle fazioni palestinesi o, peggio, di quelle dell’integralismo islamico.
Oppure quando nelle nuove generazioni l’alcool si sostituisce alla droga pesante, nella medesima operazione volta a ricondizionare gli individui in un autismo di fatto (solo apparentemente edonistico), nell’egoismo spicciolo del mors tua, vita mea, dello “sfangare la giornata” (un tempo la dose) senza riguardo per nulla e per nessuno, senza progetti, senza impegno, senza solidarietà e sensibilità sociale e sindacale organizzata, a mo’ d’anestetico a “lenire” il mercato del non lavoro e il precariato strutturale (accettato di fatto quasi senza colpo ferire).
Che dire poi della zona grigia di certi patetici residui di una generazione che fu giovane per definizione, oggi alle prese ancora con una marginalità ostentata a mo’ di divisa? Anche qui l’alcool ha spesso preso il posto della droga e (di sovente) i “mi piace” di Facebook (con i suoi post e improperi, frizzi e lazzi rigidamente anti-qualcosa – Berlusconi, ad esempio) quello dell’impegno sociale e politico diretto.
L’educazione è parte integrante (basilare) di qualsiasi processo etico, perché in sua assenza non si sarebbe data alcuna forma di convivenza. Il corto circuito in certa “sinistra”, deriva, fra gli altri, dalla volgarizzazione del dogma leninista secondo il quale la libertà sarebbe un “concetto borghese”. Quindi lo diventano automaticamente anche le sue forme, in primis il rispetto: del pensiero divergente, prima, quindi dell’altro da sé (se soggetto estraneo rispetto al branco e alla sua tenuta disciplinare e conformistica).
Miriadi di piccolo-borghesi hanno funto da apripista a un processo di adeguamento che avrebbe fatto inorridire Pasolini: la mimesi sull’immagine (peraltro becera e standardizzata) del sottoproletariato urbano.
Emblematico, ad esempio, il linguaggio di quanti, magari figli di medici o professionisti, credevano di arringare gli operai fuori dalle fabbriche della capitale con espressioni in romanesco per sembrare “dell’ambiente” (e come se l’espressione linguistica avesse una collocazione ideologica).
La contraddizione con Educazione siberiana salta immediatamente agli occhi. Se nella periferia dell’impero sovietico emergeva il tentativo di far crescere valori contrapposti a quelli (dominanti) del fascismo rosso, nelle periferie occidentali segnate dall’egemonia di una certa “sinistra”, si faceva esattamente il contrario: i miti del comunismo da caserma venivano presi a modello (in particolare quella che Camillo Berneri definì “operaiolatria”, ma con qualche riserva opportunistica verso lo stakanovismo), con tutto il relativo corollario folkloristico, per un ennesimo risultato di omologazione. In questo calderone di cibo esistenziale e ideologico edulcorato, scomponendo gli “addendi”, si può ben analizzare come costoro siano passati dall’operaiolatria (di stampo marxiano) alla sottoproletariolatria (che non è neanche marxista)…
Il jeans bucato non è più il prodotto estemporaneo d’una caduta dalla moto, bensì il segno distintivo di un’antitesi alla cravatta (molto fascista e/o molto borghese), anche se oggi i pantaloni con gli strappi vengono venduti a peso d’oro anche dalle grandi griffe. Trasandato, e poi “confuso” e “instabile” (e con licenza d’imbecillità e deresponsabilizzazione): così si battezza il “bello” in regime conformista.
Avere (oggi) la fortuna di un lavoro garantito non spinge costoro (vecchi che fanno i giovani e giovani che copiano quei vecchi) alla sindacalizzazione e alla lotta per opporsi alle privatizzazioni e ai danni che complessivamente vengono fatti alla società civile, quanto all’ideologia del “lavorare stanca”. Diventa rivoluzionario persino farsi pignorare lo stipendio perché non si paga il condominio.

La società impersonale

La stessa vita quotidiana riflette lo stereotipo: rivoluzionario sarà quindi ciondolare per la strada, magari alticci dalla mattina, come se quel lavoro non esistesse, con un bicchiere o una bottiglia in mano. Rivoluzionaria sarà anche l’adesione femminile a un lessico sguaiato e l’assorbimento dei valori maschilisti della rozzezza e della violenza.
Non esiste estetica senza senso etico (e il branco ha un’estetica unicamente antitetica).
Tipico della società impersonale sviluppatasi a Occidente è un’omologazione costruita sollecitando l’individualismo (l’egoismo, l’esteriorità e il narcisismo), ma per abbattere l’individualità.
Naturalmente esiste persino un amore politicamente corretto: così la diseducazione dell’intimo fa credere normale l’instabilità come sale dei rapporti.
L’alternanza fra noia, consumo dell’altro, sballo, divengono normali “contraddizioni del vivere”.
Il (malinteso) mito della spontaneità (parificata all’assenza di ragionamento), diviene semplicismo e superficialità, e con sé porta quello della diseducazione. Così si passa la vita come uno scontro con la quotidianità (e non certo con il potere).
La durezza viene preferita all’educazione perché sarebbe più “spontanea” e “diretta”: così, soprattutto, è l’orizzonte della problematicità a essere espunto dalla vita sociale come dalla sfera interiore.
L’orizzonte dei supercafoni musicali, televisivi e digitali è oggi anche quello dei bamboccioni. Ma la colpa non è solo di ragazzi sempre dipendenti e mammoni, quanto di genitori eterni bambini, formatisi nell’assenza del senso del limite, tipico delle fasi estreme della contestazione giovanile del post ’68, così che oggi, come scrive Massimo Recalcati, s’è passati dal complesso di Edipo al complesso di Telemaco, senza soluzione di continuità.
L’esperienza (corretta) dell’autogestione è divenuta mito dell’autogenerazione: l’auspicato abbattimento del padre-padrone ha portato ben oltre, sino all’eliminazione manu militaridella figura genitoriale in sé, interiorizzata come figura inappropriata alla quale padri e madri dovrebbero quindi sfuggire. Il taglio netto del legame con i valori del passato è diventato assenza totale di verifica dei modelli e della stessa funzione della trasmissione, appropriazione e ristrutturazione dell’esperienza pregressa.
La vera eredità sociale diviene l’instabilità: quella precarietà (non solo economico-lavorativa) determinata in assenza del confronto (e anche del conflitto) genitori-figli, poiché non esistono più né gli uni né gli altri.
Occorre quindi approfondire un minimo il discorso sulla libertà, che non è mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. Perciò la libertà stessa ha una funzione sociale e a tal fine la collettività esprime una sua autorevolezza che è altra cosa rispetto all’autoritarismo.

Il mito della diseducazione

Sarà utile citare Camillo Berneri: “All’autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l’autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari”. La libertà non è nulla se non finalizzata, e non è possibile un’eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktatideologico. Occorre partire da una comune acquisizione della necessità di un impegno sui valori (condivisi) e dell’impiego degli stessi come metro comune.
La diseducazione, nutrita del suo proprio mito, diviene quindi l’ennesima incarnazione e mutazione dello stereotipo romantico. Diseducazione innanzitutto come esistenza virtuale, aliena dal reale, mito dell’artista quale essere altro, baciato quindi gratis dall’ispirazione, eroe e semi-dio mosso solo dalla fulminazione del suo genio, estraneo al lavoro, all’impegno, allo studio.
Questo è il mito-archetipo romantico dell’arte, quando invece per gli antichi greci l’arte era soprattutto impegno, ingaggio artistico costante, essere capaci di produrre “per l’occasione” (come nel caso di praticamente tutte le tragedie), e non certo solo in via estemporanea.
Ma era così anche per Baudelaire (il quale, contrariamente a quanto vulgata pretenderebbe, non può essere annoverato fra i romantici), che infatti scrisse: “L’ispirazione è sorella del lavoro giornaliero”.
L’individuo diverrebbe quindi compiuto, per i moderni epigoni del cibernetico neo-romantic, solo perché stravagante, bastian contrario, senza nessi con il reale, perché così somiglierebbe all’artista. Per costoro l’imperativo è distinguersi per forza, e distinguersi dal reale. Una unicità artefatta.
E non v’è neppure nulla di nuovo. Come scrisse ancora Berneri:“Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento”.
La diseducazione politica e i tanti sociologismi di maniera portano a credere che la responsabilità personale non esista, che tutto il male del mondo sia sempre cosa esterna e lontana che tutto giustifica e non “implica”. Come se la sola esistenza del dominio non consentisse che scelte obbligate e senza meta, senza soluzione di continuità, nella coscienza, nell’azione e nella responsabilità dell’individuo (anche nei rapporti più stretti).
Così si costruisce la cultura marginale, si rinforzano i ruoli: mutatis mutandis si mantiene tutto come è sempre stato. Con la differenza che gli stessi che persistono in queste dinamiche, pur credendosi I dannati della terra di Frantz Fanon (o i “nuovi poveri”), ormai sono “garantiti”, sfoggiano cellulari stellari per connettersi a internet dalla strada e dal lavoro, hanno alle spalle famiglie sfasciate ma casa di proprietà.
La marginalità ostentata ed esibita (quindi accettata) è il maggior risultato del (vero) relativismo etico: induce in politica il mito dell’estraneità a tutti i costi (‘esistiamo solo noi’), e lo fa anche rispetto alla sfera personale (‘esisto solo io’).
L’abito mentale dell’“estraniato” si realizzerà nel rifiuto del confronto rispetto alle ragioni altrui, qualsivoglia esse siano. Nel vedere la dialettica come mero artificio retorico che non porterebbe in nessun luogo, fino al mitico, e invero demenziale, “sono tutti uguali”, arcano maggiore del qualunquismo nostrano. Solo che a mettere in atto un simile processo mentale non è più l’analfabeta, bensì laureati e quasi tali, perché innamorati del mito della marginalità e, soprattutto, per sfuggire la loro stessa ragione e, negli scambi interpersonali, l’eventuale sofferenza di aver torto.
Si può intervenire solo a patto di rendersi interiormente modificabili, di esser capaci di pensiero divergente, sempre e comunque, in qualsiasi situazione, gruppo sociale o movimento politico: un pregio raro, specifico dell’umanità, che qualsiasi conformismo ingloba e annichilisce. È l’attitudine profonda, interiore, all’indipendenza e alla libertà ciò che conta davvero: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa” (Berneri, 1936). Essere diventati comunisti solo perché lo erano tutti equivaleva a non esserlo, e ciò spiega molto dei trasformismi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Se si ragiona finalmente sul dato ormai indiscusso che la libertà non si può costruire con la dittatura, nondimeno l’equità resta necessaria, e libertà ed eguaglianza non sono in contrapposizione. Come ha sempre sostenuto il movimento libertario, trattasi semmai di sinonimi. Perché lo sforzo maggiore del neoliberismo imperante sta tutto nell’impedire che la storia (la cui “fine” non verrà mai) giunga a “maturazione”, che la gente capisca che se quelle ideologie erano fallimentari (ma non tutte), le si può abbandonare o modificare, mentre i valori primari sono sempre gli stessi.
La rivoluzione o sarà umanista (e contro tutti i conformismi) o non sarà: l’educazione è sempre stata all’origine dell’umanesimo.

Stefano d’Errico

 

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Umanesimo Combattivo

E’ nel momento in cui credi di essere solo in questa società la botta di adrenalina arriva forte dentro di te quel sentimento di rivalsa nei confronti di tutto quello che è umanamente subibile

alza lo sguardo al cielo incontra il tuo intento nella terra e troverai Cusa, un piccolo baluardo urbano che ha tanti sogni nel cassetto comune dell’esistenza

un Umanesimo Combattivo, una corrente che trascina l’interiore alla lotta quotidiana contro un titanico avversario

Colui che crede di essere artefice della nostra vita quando questa puo’ essere governata da noi stessi, ebbeni si

noi stessi, Umanesimo Socialismo Anarchia

Umanesimo combattivo quel soffio di vita che ci rende vivi,

rinnoviamoci,rivitializziamoci,costruendo il nostro futuro libero splendente, non più  alla ricerca delle briciole ma asspaorando tutta la torta

dentro di noi c’è l’universo l’anelito alla rinascita, alla costanza e al fermento creativo, se tutto è stato fatto rifacciamo tutto da capo

coraggio popolo!fieri paladini dell’umanità, ogni persona che ha la voglia di risvegliarsi e dire un potente No sarà la benvenuta

 

unendo le forze, non dimenticando quello che siamo le nostre origini,i nostri scopi e obiettivi potremo dare colore al grigiume di questa società

saremo il colore e la tavolozza che mischia tutto

il soffio della terra che riprende fiato

 

 

Francesco

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No Muos? No fasci

Da qualche giorno gira un articolo su un fantomatico corteo che sarebbe stato organizzato per il 30 novembre a Palermo dal movimento No Muos, movimento da sempre in lotta contro l’impianto di antenne satellitari costruito dai militari americani nei pressi di Niscemi in terra Siciliana.

L’articolo è stato pubblicato sul sito palermoreport.it in data 5 novembre 2013.

http://www.palermoreport.it/notizie/il-popolo-no-muos-torna-in-piazza

Dato che il movimento no muos non si rivendica in nessun modo questo corteo e anzi in molti ne smentiscono la partecipazione, ci viene lecito pensare che qualcuno si sia infiltrato sulla pagina facebook del movimento facendo girare questa fasulla informazione.

Nell’articolo viene nominato portavoce dei No Muos un certo Stefano Di Domenico, nome che non ha nulla a che vedere col movimento, e a quanto pare, di ideologia fascista.

Il tale Stefano Di Domenico avrebbe dichiarato le seguenti testuali parole (riporto dall’articolo di palermoreport):

”Il nostro intento – spiega Stefano Di Domenico portavoce della ‘Rete NoMuos’ – è quello di creare la prima forma di protesta realmente libera, scevra da bandiere partitiche o influenze ideologiche come quelle viste sin ora. Chiunque potrà aderire alla manifestazione a condizione che si metta da parte ogni simbolo politico o partitico in nome di una lotta che vuole e deve essere di ogni italiano di Sicilia. Non saranno tollerate – conclude Di Domenico – bandiere, magliette, cappelli o quant’altro rechi simboli diversi da quelli oggettivamente riconosciuti (tricolori, trinacrie, bandiere NoMuos)”.

Come Cusa, ci sentiamo in dovere di rifiutare queste affermazioni.

Tanto per cominciare, simboli politici non vuol dire necessariamente simboli partitici (le bandiere no Muos ad esempio, sono simboli politici ma non partitici) e soprattutto ci viene da chiedere se escludere simboli politici non voglia dire non volerne alcuni per poter imporne degli altri.

Come anarcopacifisti rifiutiamo il tricolore come simbolo di uno stato che manda i suoi militari a combattere a fianco degli Stati Uniti, cioè proprio il paese che installa le sue basi nel Mediterraneo per poter poi più facilmente spostare uomini e macchine in Medio Oriente.

Inoltre, pensiamo che la lotta contro il Muos non sia degli Italiani, né di quelli in terra siciliana né di tutti gli altri, primo perché non riguarda esclusivamente la Sicilia, ma fa parte di un problema più grosso che ci riguarda tutti, cioè la privazione della nostra libertà e lo scempio che si compie sui nostri territori, e secondo perché il territorio è di tutti quelli che lo vivono, stranieri compresi.

Infine, come anarchici, rifiutiamo lo slogan “liberi e sovrani”, poiché dove ci sono sovrani non possono esserci uomini liberi, ma solo schiavi.

In solidarietà con il movimento No Muos, rifiutiamo ogni infiltrazione fascista al suo interno.

CUSA

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La Formica

Chi siamo

La Formica è un gruppo di individui, uno snodo libertario in movimento, che promuove cultura, dibattiti e impegno diretto sul territorio di Padova. Rivendichiamo il piacere di negare le dinamiche di dominio contemporanee, trasformando ogni occasione e spazio che viviamo quotidianamente, in un possibile percorso di emancipazione individuale e comune da costruire insieme qui ed ora. Poiché briciola dopo briciola, anche la piccola formica fa la sua parte.

Di cosa ci occupiamo e perché

L’anarchismo sembra un’idea inattuale, e richiama alla mente il periodo storico a cavallo del Novecento più che gli anni della contemporaneità. Eppure, a chiusura del “secolo breve” e dopo la caduta del muro di Berlino, mai come ora le idee anarchiche hanno conosciuto una fioritura così intensa: l’insurrezione zapatista in Messico (1994), le manifestazioni contro il Wto di Seattle (1999), le varie lotte contro le politiche neoliberiste, fino alle pratiche degli Indignados spagnoli e all’entrata in scena del movimento Occupy, accompagnate da radicali istanze anti-ideologiche, antigerarchiche, native, ecologiste e femministe. Riteniamo dunque quanto mai attuale condurre una riflessione autocosciente e condivisa sui temi “inattuali” dell’anarchia, aggiornandone contenuti e lessico coerentemente ai nuovi mutamenti storici e al nostro contesto locale.

Ecco il gustoso caliero (*) dei nostri interessi: anticapitalismo; critica del linguaggio e linguaggio della critica; antimilitarismo; educazione (e maleducazione); coltivazione di conflittualità creativa ed emancipatoria; cosmopolitismo apolide; anticonsumismo, antirazzismo, antisessismo e antispecismo; antifascismo; spazi urbani e tessuti territoriali; ecologia sociale; squat, occupazioni e t.a.z.; lgbtq, sessualità e genere; lotta anticarceraria e antipsichiatrica; promozione, diffusione e creazione di arte, cultura, dibattiti; hacking; lotta alla repressione; antiproibizionismo; anticlericalismo; economia umana; convivialità; eccetera. Il tutto in salsa spiccatamente libertaria.

L’ampiezza dei temi trattati va di pari passo alla volontà, alle capacità e alla ricchezza di esperienze di ciascuno delle e dei partecipanti.

L’obiettivo, i fini

Il nostro obiettivo è quello di essere un “luogo” in cui anarchici, libertari e simpatizzanti – o anche semplici curiosi – si ritrovino per discutere e costruire percorsi con altre persone che condividano i medesimi ideali e principi:

  • la libertà di autodeterminarsi in quanto individui e di autorganizzarsi tra liberi individui;
  • l’eguaglianza, inscindibile dalla libertà, tra tutti gli esseri umani, considerati in quanto tali, a prescindere da elementi quali genere, cultura, età, ceto sociale, lingua, orientamento sessuale, ecc.;
  • la solidarietà, il mutuo appoggio, il rispetto reciproco, la valorizzazione della diversità e della complessità nei confronti di terzi e di tutto ciò che ci circonda, natura e animali non-umani;
  • l’assenza di imposizioni, di costrizioni, di gerarchie, di autorità, ivi compresa quella della “maggioranza”.

I metodi

  • la democrazia diretta, da esercitarsi in forma assembleare ed egualitaria, con l’utilizzo di tutti i metodi consensuali per il libero accordo tra persone e gruppi diversi;
  • l’azione diretta, ovvero agire in prima persona senza deleghe;
  • l’utilizzo della nonviolenza per quanto più possibile.

Cosa e come fare

Partendo da questo patrimonio di valori condivisi, il desiderio è di avviare iniziative che li promuovano e, quando necessario, li difendano adottando tutti i mezzi necessari e che siano quanto più coerenti con i nostri fini. Teniamo a creare nelle nostre attività una costante tensione tra dimensione culturale e dimensione politica, nella convinzione che la prima abbia la capacità di influenzare e rafforzare la seconda, e viceversa. Il fine è avviare un progetto comunitario di analisi e di azione connotato da una forte valenza etica.

Come partecipare

La partecipazione al gruppo da parte delle interessate e degli interessati è libera e volontaria. Le discussioni sono aperte a tutti i contributi ed a tutte le proposte coerenti con la natura libertaria del gruppo ed il metodo del consenso è quello abituale per le decisioni riguardanti le iniziative.

Se vuoi contattarci e/o partecipare alle nostre attività, scrivi a:

eguaglianzanellaliberta@autistici.org

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Perché dire no alle grandi opere? La salute non basta

Spesso i principali motivi del dissenso alla costruzione di un’antenna, un ponte o una ferrovia, che smuovono più facilmente gli animi delle persone e fanno persino uscire qualche parola di solidarietà dalle bocche di alcuni governanti, sono quelli riguardanti salute e ambiente.

Vengono chiamate in causa teorie scientifiche per dimostrare che un impianto di antenne satellitari costruito vicino a un centro abitato emana radiazioni elettromagnetiche che provocano il cancro, che in terreni dove sorgono inceneritori e discariche si trovano elementi tossici in gran quantità, esperti sono chiamati a dimostrare che un ponte di dimensioni megagalattiche sullo Stretto di Messina costituirebbe un intralcio per gli uccelli che migrano verso l’Africa, che la struttura del ponte non reggerebbe a un terremoto, e che un simile “colosso” distruggerebbe interi ecosistemi che attualmente sono dichiarati patrimonio dell’Unesco.

C’è un continuo bisogno di giustificare il “no” portando avanti teorie, chiamando in causa norme della Comunità Europea in merito alla salute pubblica e all’impatto ambientale, aggrappandosi ai numeri e alle statistiche.

Questa strategia spesso non tiene conto di quello che è il fondamento della scienza occidentale: qualsiasi teoria scientifica può essere sovvertita, perché una teoria resta valida finché un esperimento non dimostra il suo contrario. Allora chi è che decide quale teoria è più valida di un’altra?

Le verità scientifiche sono figlie delle scelte politiche ed economiche.

  • Dovete convenirne, Doughty. La scienza non può che essere obiettiva.
  • Obiettiva nell’ideale, ma soggetta alle circostanze, come ogni faccenda umana.
  • In questo caso, si tratta di opinione.
  • Eppure ricorderete la disputa tra Wilson e Benjamin Franklin.
  • Quella sul parafulmine?
  • Esatto. È più funzionale un parafulmine lungo e acuminato o corto e smussato?
  • Non ricordo chi dei due avesse ragione.
  • Perché gli esperimenti non sono riusciti a dimostrarlo. Tuttavia il re decise di dare ragione a Wilson e adesso le sue teorie stanno nei manuali scientifici e i suoi parafulmini sui nostri campanili.
  • Non capisco dove volete arrivare.
  • Be’, non potranno mai convincermi che quella scelta sia dipesa solo da ragioni scientifiche. Wilson era tory, Franklin whig. Uno era londinese, l’altro coloniale. Uno era protetto da Lord Vattelapesca, l’altro era il rappresentante commerciale della Pennsylvania. Credete che abbia pesato di più l’oggettività scientifica o la ribellione nel New England? Scommetto una ghinea che in Pennsylvania issano parafulmini a punta come noi qui li abbiamo tondi.”

“Manituana” – Wu Ming – Einaudi editore

Anche chi costruisce ponti enormi e ferrovie per treni iperveloci, infatti, si avvale del parere di un esperto prima di tagliare a metà una valle o di scavare la terra: tutti i progetti delle grandi opere prima di essere costruiti hanno bisogno di una certificazione che il loro impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone sia minimo: questa certificazione si chiama Valutazione d’impatto ambientale ed è la più grossa presa in giro messa a punto dal sistema capitalista.

Ci sono intere squadre di ingegneri, architetti, paesaggisti, ecologisti, fisici, anche di un certo spessore, che dimostrano che il ponte sullo stretto non darebbe fastidio agli uccelli migratori, e che la sua struttura è abbastanza elastica da resistere a un terremoto di magnitudo molto alta, che le antenne satellitari emanano radiazioni la cui intensità è al di sotto della soglia di pericolo per la salute delle persone. Non c’è niente che dimostri che queste teorie siano meno o più valide di quelle portate avanti da chi ha deciso di mettere la sua scienza e la sua perizia al servizio di popoli in lotta contro lo scempio delle grandi opere.

Ma allora chi decide quale sia il massimo della soglia di tolleranza alle radiazioni elettromagnetiche? Come si fa a sapere quanta CO2 bisogna eliminare dall’aria per renderla più respirabile e quanta ne può essere prodotta ancora dalla combustione delle auto e delle fabbriche? E in base a quali parametri si decide che ci siano territori che vanno protetti a tutti i costi eretti a patrimoni dell’umanità, mentre qualche metro più in là si può far colare il cemento a tonnellate? E a quale distanza dall’abitato si può costruire un’antenna senza dar fastidio a nessuno?

Nessuno ha mai deciso quali siano i numeri che contano di più. Chi decide la validità dei numeri sono in realtà gli interessi economici e politici.

Ebbene, ci si potrebbe chiedere, perché accanirsi allora contro le grandi opere nella difesa dei territori anziché lasciare che il cosiddetto “progresso” ci invada?

Il punto è che al di là dei numeri e delle statistiche, non ci vuole molto a capire che quando si vive vicino a una discarica, l’aria che si respira non è buona, o che quando una valle viene tagliata in due da una strada o da una ferrovia c’è un territorio che viene distrutto irrimediabilmente. Il punto è che nessuno andrebbe ad abitare vicino a una superstrada dove giorno e notte si sente il rombo dei motori a prescindere da quanti decibel siano sopportabili dall’orecchio umano, o dove si respirano continuamente gas di scarico delle auto o il puzzo della spazzatura; il punto è che nessuno berrebbe l’acqua di una terra contaminata a prescindere se vi sia o meno una soglia di tolleranza della tossicità o da quanta gente sia morta per intossicazione. Tutti, per semplice esperienza, sappiamo che la qualità della vita in queste condizioni è pessima.

Nonostante questa consapevolezza, spesso in queste condizioni ci viviamo, anzi quasi ci autoconvinciamo che sia giusto viverci nel nome di interessi più alti e che non sarebbe possibile vivere in un altro modo. Le grandi opere, infatti, non sono altro che un’amplificazione di ciò che già viviamo quotidianamente tutti quanti. Nelle nostre città siamo sommersi dalla nostra stessa spazzatura: perciò chi ne vive ai margini si deve “sacrificare” ad avere l’inceneritore sotto casa per ovviare all’“emergenza rifiuti” o in alternativa rassegnarsi alla discarica; nel nome del progresso economico si costruisce senza pietà modificando il territorio, sfrattando persone, confiscando terreni, bloccando le strade, creando cantieri in pieno centro abitato: con la stessa logica, chi vive in Val di Susa o dalle due parti dello stretto di Messina deve accettare la realizzazione dei due progetti più ambiziosi che ci siano in questo momento in Italia, che tanto benessere porteranno al paese; le nostre strade sono continuamente pattugliate dalle forze dell’ordine che ci devono garantire la sicurezza: allora perché non volere i militari americani che fissano le loro basi nel Mediterraneo per poterci proteggere dai terroristi che ci minacciano dall’Est.

Insomma, in nome di un bene superiore, si deturpano i territori e si mina la libertà delle persone di viverci pacificamente e decorosamente.

Questo bene superiore mascherato da crescita, progresso, civiltà rappresenta più semplicemente il bene di chi ha interesse a mantenere questo sistema economico basato sulla produzione e sul consumo e detiene il controllo delle risorse del pianeta. Militarizzare il Mediterraneo serve a mandare avanti le industrie della guerra, costruire inceneritori crea un giro di denaro intorno ai rifiuti, i treni veloci fanno viaggiare i “signori” del cemento per permettergli di condurre i loro affari in una giornata da una parte e dall’altra dello stivale.

A questo punto i sostenitori più accaniti delle grandi opere se ne verrebbero fuori con una domanda: qual’è l’alternativa proposta? Volete fermare il progresso e tornare indietro a pascere le pecore?

Bene: premesso che questo famigerato “progresso” porterebbe ricchezza a pochi e manterrebbe comunque in povertà gran parte delle persone, anch’io avrei delle domande da porre a riguardo.

Come si fa a conciliare il “progresso” con la limitazione della libertà delle persone?

In una società che si definisce “civile” ci può essere qualcuno che si sacrifica per il bene di qualcun altro, o per meglio dire per un bene superiore?

Mi chiedo se ci sia davvero bisogno di trovare un’alternativa alle grandi opere, o se invece la realtà è che non vi sia alcun vero bisogno di costruirle: in tal caso non ci sarebbe bisogno nemmeno di un’alternativa. Forse ciò a cui davvero serve un’alternativa è l’intero sistema economico e politico.

Urge un sistema in cui le risorse siano gestite in comune e accessibili a tutti, anziché essere in mano a qualcuno che decide chi ne può usufruire e in che misura; un sistema in cui il valore delle cose non si misuri in denaro, ma sulla base delle effettive necessità di ognuno; un sistema in cui si riscopra il piacere di fare le cose e si abbia il tempo per godersele; un sistema in cui non solo l’ambiente naturale, ma anche quello urbano sia più vivibile, con più “spazi verdi”, con meno strade e senza automobili in cui ci si possa muovere in maniera diversa da quella attuale; un sistema basato non su poteri centrali o centralizzati, ma sull’autogestione e sul rispetto della libertà di ogni singolo individuo.

KUKUMI 88

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Manifesto del Terzo paesaggio – Gilles Clément

Terzo paesaggio rinvia a Terzo Stato (e non a Terzo mondo). Uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere.”*

Per comprendere il senso del Terzo paesaggio bisogna uscire dalla logica ecologica dominante negli ambienti accademici e cominciare a concepire la natura come qualcosa di non ordinato, che non va verso una direzione predefinita, ma che è imprevedibile e cambia continuamente: dunque essa non può essere studiata tramite modelli matematici. Di conseguenza non la si può nemmeno conservare rinchiudendola all’interno di certi confini, come qualcosa di statico che non cambia nel tempo.

Una volta superati questi limiti mentali, possiamo iniziare a pensare alla natura non come qualcosa che è andato completamente distrutto senza possibilità di recupero e che sopravvive solo in poche oasi protette, ma come un’entità che ci circonda, che si ritrova nei posti più impensabili e che ha solo bisogno di essere lasciata in pace per riprendere il sopravvento, magari sotto forme diverse da quelle che noi conosciamo o ci aspettiamo.

Gilles Clément definisce il Terzo paesaggio come l’insieme dei residui, ovvero quegli elementi di paesaggio ai quali non si dà una funzione, che derivano dall’abbandono di un terreno precedentemente sfruttato. Possono derivare da diversi ambienti: urbani, agricoli, rurali, industriali e comprendere qualsiasi tipo di ecosistema che possa garantire il mantenimento della diversità.

Principale caratteristica con cui può essere definito il Terzo paesaggio è infatti l’essere un punto di ritrovo della diversità.

Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio d’ombra, né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente.

Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.

Il Terzo paesaggio è un ambiente aperto: le specie non si isolano, ma si mescolano, cambiano, ne compaiono delle nuove e altre scompaiono.

Questo avviene perché il Terzo paesaggio è il luogo dell’invenzione e della sperimentazione, in cui la vita assume varie forme e comportamenti. C’è un’evoluzione dinamica, non costante. L’evoluzione del Terzo paesaggio dipende dalle necessità di adattamento all’ambiente, la vita non deve arrivare ad un risultato finale prefissato né ha una via già decisa da seguire: essa ha come priorità “organizzare per sé delle possibilità di esistenza.” Perciò per il Terzo paesaggio non è possibile utilizzare le curve di crescita teorizzate dai modelli statistici, poiché bisogna tener conto delle modalità biologiche dell’ambiente. L’evoluzione incostante fa si che i sistemi biologici resistano nel tempo: la vita può facilmente rimodellarsi seguendo i cambiamenti ambientali, assumendo nuove forme, cosa che un’evoluzione costante non può favorire. Le specie che si evolvono in maniera costante sono sottoposte alla pressione ambientale, e non hanno una capacità di adattamento attivo ai cambiamenti. La comunicazione tra le specie e la mescolanza di specie sono parti fondamentali e necessarie dell’evoluzione dinamica. Viene messo in discussione il principio per cui alcune specie devono essere conservate e mantenute “pure”, senza essere “contaminate” da altre “specie esotiche” o “pioniere” ritenute spesso “dannose”.

Come si mantiene il Terzo Paesaggio? Esso non è sottoposto a protezione da parte di un’istituzione, ma affidato alla coscienza collettiva. Se l’istituzione si interessa al Terzo paesaggio, lo erige a patrimonio dell’umanità. Il concetto di patrimonio rimanda a qualcosa di statico, a un modello di natura “congelata”, che non ha a che vedere con la dinamicità e l’imprevedibilità, perciò l’istituzionalizzazione e regolarizzazione del Terzo paesaggio possono condannare quest’ultimo alla sparizione. Quando l’istituzione si disinteressa del Terzo paesaggio ritenendolo un luogo senza valore dal punto di vista economico e morale e non lo modifica, ne rende possibile il suo sviluppo. Così sono garantiti “il mantenimento e il dispiegamento della diversità”.

Il Terzo paesaggio dunque non può essere gestito da nessuno, e si pone oltre la contrapposizione pubblico- privato. Esso è un bene di tutti.

Il Terzo paesaggio è oggetto di interesse da parte di un’istituzione o di qualsiasi altro ente quando esso può essere sfruttato in maniera redditizia dal punto di vista economico, questo può essere un danno per il Terzo paesaggio, poiché l’evoluzione biologica non può coincidere con quella economica: l’evoluzione economica favorisce l’accumulazione, “il Terzo paesaggio, territorio d’elezione della diversità, dunque dell’evoluzione, favorisce l’invenzione, si oppone all’accumulazione”.

 

KUKUMI88

 

 

* tutte le citazioni in corsivo sono prese dal libro di Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, edito da Quodlibet, curato da Filippo de Pieri

 

 

Nota su Gilles Clément:

Gilles Clemént, paesaggista, ingegnere, agronomo, botanico, entomologo e scrittore.

Degno di nota tra gli altri suoi libri, “Il giardino in movimento” in cui applica alla dimensione del giardino alcune delle sue teorie sul Terzo Paesaggio, proponendo un’idea di giardino diversa da quella tradizionale.

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