Chiesa e religioni: come ce ne liberiamo? (pubblicato il 18/04/10 su cusa.splinder.com)

La domanda risorge spontanea in questo periodo di esposizione di Sindone, quando i libri di mistero, sulla vita di Cristo e di teologia, occupano i vertici delle classifiche di vendita, mentre l’opinione pubblica scopre ciò che chi risulta inadattabile ai sondaggi d’opinione sapeva già perfettamente. E cioè che preti, vescovi e papi stuprano i bambini. E se non tutti lo fanno fisicamente, lo fanno psicologicamente in quel che raccontano loro e in ciò a cui cercano di educarci fin dall’infanzia.Anticlericale

Sarebbe fin troppo facile e forse scontato, mettersi ora a fare una cernita del perché la Chiesa e le religioni più in generale siano tra i sistemi di potere responsabili delle peggiori nefandezze della storia degli umani. O forse in realtà potrebbe essere anche utile rinfrescare la memoria, ma per questo merita ricordare che gli anarchici sono forse la realtà storica che più di tutte ha sempre mantenuto una coerenza nella lotta ad ogni forma di culto, e la pubblicistica in tal senso non manca.

Eppure, quando in epoca contemporanea l’Occidente era attraversato da quel forte vento di cambiamento radicale che si chiamava socialismo, nelle sue svariate forme ed interpretazioni, era convinzione di qualsiasi spirito libero che le religioni e la Chiesa, sotto i colpi della ragione scientifica e del progresso tecnologico, non avrebbero nel giro di un secolo più avuto ragione di esistere.

E allora perché? Come si spiega non soltanto la loro mancata estinzione, ma addirittura la ripresa dei fenomeni spirituali e delle credenze legate alla divinità, seppur spesso critiche o anche in contrasto con l’istituzione e il suo potere?

Sicuramente un ruolo primario è stato ed è tuttora giocato dall’egemonia culturale che l’”homo religiosus” e le sue istituzioni ancora detengono sotto varie incarnazioni, nonché dal livello di repressione che esse sono state e sono in grado di esprimere. Ma questo lo si sapeva già perfettamente un secolo fa e oltre, e allora chi forse ingenuamente continua a credere nella possibilità della libertà e quindi della liberazione, non può non domandarsi se qualche cosa non abbia funzionato anche in quelle correnti di pensiero che proprio della morte di Dio e dell’estinzione della religione hanno fatto uno dei loro cavalli di battaglia. E viene da rispondere che forse sì, quei fenomeni storici non hanno saputo, dopo aver ucciso Dio e l’uomo, dare delle risposte adeguate riguardo a quella che è la dimensione ontologica ed esistenziale – che può essere in certi momenti anche spirituale, perché energetica – atea, agnostica o comunque antireligiosa, dell’essere umano. Questo lo dimostra anche il rimbecillimento teista, spiritualista o ascetico di personaggi storici di una certa sinistra come Ferretti, Benigni, Terzani, ecc.

NietzcheForse paradigmi come il materialismo e lo scientismo sono alla lunga risultati insufficienti. Forse quando Nietzsche ci ha parlato di “Dioniso contro il Crocifisso” o dell’ ”uomo che va sempre oltre sé stesso” ha finito col capovolgere una medesima visione mitica e aristocratica della vita. Che paradossalmente, proprio di Dio e dello sfruttamento finisce con l’avere bisogno.

E intanto il potere ecclesiastico (e non solo) ci ha ancora una volta dimostrato come esso sia straordinariamente in grado di riassorbire annacquandolo, ogni fenomeno spirituale o esistenziale di dissenso che non sappia svincolarsi da quelli sono i paradigmi basilari della religione. Penso sì alla Teologia della Liberazione ed al “cattolicesimo dissidente” dell’America Latina. Ma credo che oggi sia in Italia emblema indiscusso di ciò, quella tentacolare lobby di potere che passa sotto il nome di Comunione e Liberazione.

E allora? Come la mettiamo?

Penso che sì, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Che sappia andare oltre le categorie e le categorizzazioni dell’epoca caratterizzata dagli ultimi due secoli e che forse se n’è andata.

Un umanesimo antireligioso, esistenziale senza essere esistenzialista. Questo umanesimo, ovviamente, non potrebbe che essere anarchico.

Edoardo

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Ne violenti, ne ladri, ne bombaroli, tutt’altro: anarchici (già pubblicato lo 03/04/10 su cusa.splinder.com)

Questo post vuole essere una rilettura critica della figura degli anarchici. Nell’immaginario comune infatti, prevale l’idea che l’anarchico sia una persona cattiva, violenta, un orco sadico che si aggira per la città con il coltello. Pronto a combinare guai e fare caos. O qualcosa di simile. 
Non è stato così nei decenni passati. Sul finire del ottocento e nei primi anni del novecento, infatti, le persone avevano a cuore i problemi espressi dagli anarchici e se non erano sostenitori, perlomeno simpatizzavano con loro. Sia chiaro, non tutti erano d’accordo. Anzi. Ma un’ondata di ostilità socio-culturale come quella inaugurata dal fascismo e che perdura ancora oggi, era ben lontana dall’essere pensabile.anarchia
 
Nel corso degli anni, in molti hanno cercato di far tacere gli anarchici e i libertari, nel modo più congeniale: delegittimarli e sbatterli in galera o ridurli al silenzio (fino ad ammazzarli, Pinelli docet). Finti attentati o rivendicazioni fasulle, infiltrati, depistaggi mediatici e altro ancora, hanno garantito alle istituzioni e al governo di emarginare e ghettizzare gli anarchici. E l’operazione è andata a buon fine, se si pensa, ripeto, che adesso il solo nominare la parola “anarchia” genera preoccupazione nelle persone che la odono. Si è quindi venuto a creare uno stigma, da cui è difficile uscire. Anche perché a dirla tutta, gli anarchici non sempre si sono dati da fare per dimostrare alla gente la falsità di queste accuse e l’immagine distorta generate da informazioni mediatiche manipolate.
 
Chi dovesse leggere alcuni passi di pensatori anarco-libertari, potrebbe certo rilevare l’estremismo di certe tesi, la radicalità di alcune posizioni politiche, o l’enfasi dei discorsi e delle parole. Ma non riuscirà mai a trovare un anarchico che parla espressamente di bombe o violenza gratuita, tanto meno da rivolgere a esseri umani a lui pari. Come disse Indro Montanelli: l’anarchico, se spara o uccide, lo fa in maniera simbolica. Colpisce cioè il dittatore, il re o il rappresentante dell’autorità che reprime e sfrutta. E anche qui i casi si contano sulle dita di due mani. E cosa dire allora dei militari che sparano ogni giorno in giro per il mondo ammazzando gente innocente, o ai politici che sperperano i soldi pubblici, uccidendo in maniera latente la società intera. O alle forze dell’ordine che uccidono  molte più persone? Insomma, se gli anarchici come movimento fossero un poco di buono, il resto del mondo sarebbe pieno di carnefici.
 
La domanda allora è: come cambiare questo stigma da negativo in positivo? Come ricreare quel legame tra il movimento anarchico e le persone? Come ridare energia ad un movimento che ha perso la bella immagine dell’ “anarchico romantico che lotta per il bene di tutti”? 
Ritengo che al di là della storia e del loro agire quotidiano, gli anarchici abbiano oggi una sfida ancora più grande innanzi a loro: liberarsi dalle catene mediatiche e culturali che oggi si ritrovano addosso. Il punto di partenza per una rivitalizzazione dell’intero movimento mi sembra proprio questo: riconquistare i cuori della gente, consci della forza e giustizia degli ideali anarchici.
 
Buona riflessione a tutti.
                                                                  Ivan Thoreau


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Relazione incontro Decrescita e cooperazione non etnocentrica (già pubblicato il 26/02/10 su cusa.splinder.com)

In un periodo di crisi economica e sociale globale come quello che stiamo vivendo, sorgono spontanee alcune domande: come si è venuta a creare questa situazione? Si tratta di una crisi passeggera o strutturale di un certo modello di sviluppo? E nel secondo caso, quale è questo modello di sviluppo che ha portato a queste conseguenze? E chi lo vuole? Quali possibili soluzioni ci sono per il futuro? La cooperazione è una di queste?

Partendo da queste domande, CUSA e ISF- Firenze hanno proposto una discussione sui temi della decrescita e della cooperazione non etnocentrica. Edoardo di CUSA ha introdotto l’argomento decrescita evidenziandone la prospettiva opposta a quella capitalistica. In un mondo con risorse limitate e in parte non rinnovabili, sono impensabili i modelli capitalisti che propongono una crescita-consumo-produzione e induzione del bisogno continui. In contrapposizione ad essi ed alle loro nefaste conseguenze, che vanno dalle disparità economiche, all’aumento della competizione e della aggressività collettiva e individuale, fino alle malattie psico-somatiche, Edoardo ha ribadito la necessità di un’inversione di rotta. Sia riguardo i nostri modelli di sviluppo, sia i nostri stili di vita in generale.

L’aspetto della cooperazione non etnocentrica è stato invece introdotto da Riccardo, presidente di ISF- Firenze, che ha espresso i suoi dubbi, le preoccupazioni e gli interrogativi sorti in seguito ad esperienze concrete di cooperazione in Burkina Faso. Da quest’esperienza, lui e gli altri attivisti si sono resi conto, da un lato delle difficoltà di incontro tra comunità con culture profondamente diverse, e dall’altro dei lati “oscuri” della cooperazione. Ne sono sorte domande come: non è che la cooperazione è un modo che il sistema politico-economico ha per perpetrare se stesso e “riprodursi”? La cooperazione dovrebbe far confrontare paradigmi culturali diversi, ma è in grado di accettare queste diversità? Siamo sicuri che la cooperazione non generi delle esigenze che non appartengono a un certo paradigma culturale? Essa rispetta dunque la così detta autodeterminazione dei popoli oppure, più o meno volontariamente, la rende impossibile?

I relatori che hanno tentato di fare chiarezza relativamente alle due questioni, ed agli eventuali rapporti intercorrenti tra di esse, sono stati il prof. Renato Libanora, docente di antropologia dello sviluppo presso l’università di Firenze e Matteo Podrecca del Libero Ateneo della Decrescita di Roma. Aiutati dalle considerazioni, domande e critiche costruttive del pubblico (40 persone circa).

Il prof. Libanora ha incentrato il suo intervento sulla cooperazione, sui suoi pro e contro, sulle difficoltà dell’incontro-scontro tra le identità del cooperante e delle comunità in cui esso opera e sulle conseguenti domande che sorgono in merito all’etnocentrismo. “La forza della cooperazione non è il raggiungimento materiale concreto di un obiettivo, che spesso è infinitesimale rispetto al problema generale che si cerca di risolvere. Bensì riaprire lo sguardo sull’altro e sul sé, mettendo in crisi stereotipi e pregiudizi creando un terreno fertile per lo sviluppo di nuove relazioni umane, fondamentali per soluzioni creative ai problemi”. Questo concetto è stato un po’ la spina dorsale teorica della riflessione di Libanora, il quale ha sostenuto la tesi che bisognerebbe inanzi tutto cambiare il modo di intendere la cooperazione: dall’ assistenzialismo/logica della “mano che da, mano che riceve” ad una nuova prospettiva di condivisione di idee, conoscenze e teorie. A suo avviso infatti, l’aspetto materiale è spesso solo una parte parziale della questione entro la quale i cooperanti si trovano ad intervenire. Non si può prescindere dalle questioni identitarie, etniche e dai paradigmi culturali, così come non si possono escludere i processi politici, sociali ed economici nazionali e mondiali, dai ragionamenti atti a produrre progetti di cooperazione tra paesi. E’ assurdo credere cioè che la cooperazione si limiti al solo lato tecnico-scientifico. Inoltre, come ricordato dal professore, anche essa rappresenta un sistema di potere che risponde a determinati meccanismi gerarchici e relazionali. Il legame con gli Stati e il bisogno di avere delle entrate per pagare i dipendenti, ad esempio, porta le Ong e le altre organizzazioni della cooperazione a doversi confrontare anche con il mondo politico-economico e i suoi mezzi-obiettivi, non sempre nobili. C’è dunque la possibilità che la cooperazione, piena di buoni intenti e ideali, venga manipolata e strumentalizzata per fini politici. E su questo punto si sono accesi poi gli animi durante il dibattito. Come fa una Ong ad essere indipendente e imparziale se riceve fondi dagli Stati? Sono forse le Ong uno strumento attraverso cui le politiche nazionali vengono esportate, dietro il paravento dell’aiuto umanitario, in paesi che non possono rifiutare preziosi aiuti, seppur talvolta non li abbiano richiesti? Sono dunque le Ong mezzi di neocolonialismo? Il professor Libanora, seppur esprimendo la sua contrarietà a taluni modi di operare di alcune Ong, non ritiene che ciò sia vero per tutte. In altri termini, non pensa che si debba fare di tutta l’erba un fascio.

La vera rivoluzione concettuale, a suo avviso, è cambiare la logica stessa di operare della cooperazione. Dall’aspetto solamente materiale a quello anche ideale o di riflessione. Essa dovrebbe diventare un momento di consapevolizzazione dei soggetti che si incontrano-scontrano. Una logica di mutuo scambio dei punti di vista, delle idee e conoscenze che dovrebbe rendere in ultima analisi inutile la cooperazione. O comunque ridurne drasticamente il peso/necessità. In queste dinamiche, centrale è la questione dell’etnocentrismo come corollario fondamentale della cooperazione. Chi coopera, sa che è pressoché impossibile non cadere, magari involontariamente, in pregiudizi e stereotipi dovuti alle differenze culturali (tesi confermate anche da Riccardo di ISF a nome del suo gruppo e da altri cooperanti presenti in sala durante il dibattito). L’etnocentrismo non può non esserci. E’ parte dell’uomo e quindi dei progetti di cooperazione tra uomini. In merito al peso e all’influenza dell’etnocentrismo, lo stesso professor Libanora ha ribadito che esso non può essere eliminato completamente, ma che si deve cercare un nuovo modo di intendere i rapporti tra persone, comunità e modelli culturali. Per evitare di creare quelle barriere che rischiano di rendere granitiche e immodificabili le percezioni del “noi” rispetto all’ “altro”.

Nella conclusione del suo intervento, lungi dal ritenere la cooperazione uno strumento che guida i popoli verso una società perfetta, Libanora ha espresso il suo ottimismo verso di essa, ritenendo che con determinati cambiamenti sarebbe possibile renderne ben più trasparente l’operato, l’efficacia, ed in definitiva il valore.

Successivamente è intervenuto Matteo del Libero Ateneo della Decrescita per offrire una prospettiva più ampia su questo argomento. Egli ha sottolineato fin da subito come il modello fallimentare basato sulla crescita all’infinito dei parametri politico-economici del sistema, sia storicamente connaturato alla nascita e allo sviluppo degli Stati nazionali moderni. Lo stesso vale per quanto riguarda il problema dell’etnocentrismo, dal lui definito come forma di provincialismo. Sul quale si è appunto basato culturalmente, tanto il colonialismo quanto il neo-colonialismo occidentale. I mezzi di propaganda ci fanno tutt’oggi vedere l’Africa solo come un continente in stato di perenne carestia e di bisogno. Quello che i centri del potere non ci fanno vedere, è invece un grande movimento creativo ed intellettuale che scaturisce da questo continente, del quale sono esempi lampanti la musica e la mostra della cultura africana contemporanea. Pur dovendo riconoscere che non è tutto oro quel che luccica. E’ il caso della Nigeria che sta sviluppando una produzione cinematografica che ha dimensioni di mercato seconde solo a quella statunitense e a quella indiana.

In merito a queste prospettive, diverse sono state le critiche espresse dai partecipanti, come da alcuni compagni del Collettivo Libertario Fiorentino, sulle capacità della cooperazione di saper migliorare sé stessa e il suo modo di agire. Inoltre sono state mosse delle critiche anche al concetto stesso di cooperazione, intesa come una ingerenza non richiesta negli affari dei popoli. Dopo ore di discussione quindi, alla quale hanno contribuito anche colleghi e alunni del prof. Libanora, si sono evidenziate diverse posizioni e punti di vista, sospesi tra chi la ritiene uno strumento di emancipazione e chi di imposizione.

Al termine dell’incontro, CUSA, ISF-Firenze e Matteo del LAD, sono rimasti insieme all’apericena di ISF al Bar Argentina per intavolare delle proposte di iniziative concrete in termini di ecologia e decrescita. Una cena a Km 0 con performance teatrale, un evento specifico sulla Decrescita, un Agorà di realtà interessate a progetti di ecologia domestica e bio-regionale per il territorio fiorentino e non solo. Delle quali ci auguriamo di far girare gli inviti il prima possibile.

 

scritta da Tommy con revisione di Edo e Fra

Pubblicato in socialismo, umanesimo | Commenti disabilitati su Relazione incontro Decrescita e cooperazione non etnocentrica (già pubblicato il 26/02/10 su cusa.splinder.com)

Sull’incontro di giovedì 18 (già pubblicato il 23/02/10 su cusa.splinder.com)

Scrivo queste righe sull’incontro di giovedì 18, in attesa che venga pubblicata la sua relazione, a titolo del tutto personale e senza alcuna pretesa di provare a tirarne le fila. Giacché non ci sono fila da tirare e anche ci fossero sarebbe impossibile farlo quando si finisce con più dubbi e domande di quando si era cominciato. Sperando di non contraddire subito quando appena detto, mi è parso che su almeno un punto dell’incontro ci sia stato un accordo, pur diversificato, fra le molte voci che lo hanno animato: il modello di sviluppo economico e politico Kropotkin basato sulla crescita all’infinito è  destinato al fallimento ed allo sfruttamento. Sia di risorse naturali che della vita e del lavoro della grande maggioranza della popolazione terrestre, e come tale va combattuto andando alla ricerca di una via alternativa. Poi si può discutere su quale sia questa via alternativa o su come intraprenderne una. Ma in generale mi sembra che da parte di tutti/e ci sia stata la consapevolezza che prima di avventurarci al di fuori del mondo supposto “sviluppato” in cui viviamo, si possa e si debba cominciare proprio col sabotare quest’ultimo e le sue logiche perverse. Che non solo sfruttano da secoli altre aree del Mondo. Ma che parallelamente alla necessità di esportare i propri modelli, finiscono col riprodurli anche quando cercano – più o meno “in buona fede” – di cooperare con i popoli di queste aree. E’ il caso, per l’appunto, di più o meno tutta quella che viene attualmente definita “cooperazione allo sviluppo”, che spesso altro non è che la “mano di Cristo” che un sistema marcio come il nostro tende ai suoi dominati per perpetrare il suo perverso dominio. Questo credo che sia stato a loro modo riconosciuto anche da Ingegneri Senza Frontiere e dal prof. Libanora, i quali diversamente operano o lavorano nella cooperazione stessa, pur con un piglio molto critico e disilluso.

Più controverso mi è parso invece il dibattito su cosa si può fare nel mondo supposto “sottosviluppato” parallelamente al sabotaggio di quello supposto “sviluppato”, e se in generale sia giusto o meno agirvi in qualche modo. Io credo – e qui devo entrare nel campo delle opinioni del tutto personali – che si possa provare a riappropiarci del concetto stesso di cooperazione. Intesa come normale attività di una società sia locale che globale, la quale voglia evitare ogni forma di sopraffazione fra soggetti diversi. E quindi che voglia evitare il dominio e ridurre al minimo le strutture di potere. Ripenso criticamente a quello che ci ha detto sulla cooperazione uno dei padri dell’anarchismo come Kropotkin, oppure a quelle che sono state le esperienze del mutuo soccorso nel socialismo di fine Ottocento e inizio Novecento. Pur tenendo bene a mente che sto parlando di un’epoca passata e andata, comunque relativamente al contesto occidentale. .Malatesta

Ma mi rendo immediatamente conto che assumere questa opinione pone non pochi dubbi ed interrogativi. Primo fra tutti: la cooperazione può restare indifferente difronte alle pratiche e alle strutture del potere dei luoghi in cui opera? Tradotto: si può accettare l’infibulazione delle donne o le guerre etniche secondo il principio per cui “tu non puoi farci niente perché non puoi sapere che cosa sono per loro e finiresti col trasferirgli comunque un tuo modello”? Questa domanda, prima ancora di poter cercare una risposta, ne pone subito delle altre ben più difficili. Siamo un’unica specie? Ha senso parlare di “Umanità”? Esistono degli universali? E se sì, quali? L’anarchia, come diceva Malatesta, ha un valore universale?

Io non ho affatto voglia di tirarmi indietro, pur sapendo che mi posso sbagliare, perché sbagliando si impara e non ho paura di fare entrambe le cose. Parto da questo pensiero: chi è anarchico è anarchico in Italia come in Burkina Faso, in Cambogia come negli Stati Uniti d’America. Altrimenti non lo è. Il problema casomai, è capire cosa significa essere anarchici in Italia, cosa significa invece esserlo in Burkina Faso, cosa in Cambogia o negli States. E come ciò si traduce nell’agire in ognuno di questi o altri contesti. Come ci ha detto Foucault, il problema non è cosa siamo in generale, ma cosa siamo qui ed ora in ogni possibile diverso qui ed ora. Da questo casomai – aggiungo io senza pretese né umiltà se non lo ha fatto lui – si potrà provare a capire cosa siamo in generale, se in generale siamo qualcosa. Ma è stato lo stesso Foucault a dirci come la questione del potere e quella del soggetto siano intimamente collegate. E della necessità di creare nuovi soggetti che rifuggano ogni forma di assoggettamento, ma anche – aggiungo io come sopra – ogni forma di alienazione permanente dal sé nell’oggettività delle cose, essa stessa funzionale al sistema.                                                         .Foucault

Allora, se assumiamo quest’ottica, una possibile cooperazione sociale umana su scala sia locale che globale – reciproca e su un piano paritario, come è stato più volte auspicato anche durante l’incontro – non starà tanto a porsi il problema se gli alberi sacri dei villaggi africani siano sacri per davvero o se gli animisti abbiano parlato veramente con l’anima del proprio bisnonno defunto. Quanto quello di capire se e in che misura questi saperi vadano nella direzione del libero sviluppo di quei soggetti, tanto individuali quanto sociali, che li producono o li assumono. E se e in che misura l’incontro con saperi diversi può fare altrettanto o meno.

Questo però, implicitamente, forse comporta già il riconoscimento di un universale, almeno umano: quello, appunto, di essere soggetto, inteso dunque sempre in termini potenziali, evolutivi e storici. Ma per essere veramente liberi soggetti, termine che personalmente intendo sempre tanto in chiave individuale quanto sociale, bisogna – direbbe ancora Foucault – provare a “pensarsi al di fuori” del sistema e dei saperi che esso produce per il suo autoriprodursi. Ed anche – aggiungo ancora una volta con lo stesso trend – bisogna combatterne le pratiche e le istituzioni. In poche parole, si può ricercare un anarchia universale come espressione multiforme di liberi soggetti in ogni diverso qui ed ora.

Sono conclusioni molto azzardate e rischiose, lo so, come tutte quelle che riguardano gli universali. Ma come detto fin dall’inizio, maturano opinioni del tutto personali e tali rimangono, sospese sul crinale della vita. La vita è sempre una buona unità di misura del valore delle nostre convinzioni.

 

 

Edoardo

Pubblicato in posizioni | Commenti disabilitati su Sull’incontro di giovedì 18 (già pubblicato il 23/02/10 su cusa.splinder.com)

Decrescita e cooperazione non etnocentrica (già pubblicato il 10/02/10 su cusa.splinder.com)

CUSA – UmanesimoAnarchico ed Ingegneri Senza Frontiere Firenze

presentano

Decrescita e cooperazione

non etnocentrica

In un modello politico-economico basato sul profitto e sulla crescita all’infinito dei suoi parametri economici, non c’è da stupirsi che i progetti di cooperazione allo sviluppo possano portare con sé dei paradigmi e dei saperi che sono etnocentrici.

Questi talvolta si trovano fortemente in contrasto con la cultura e il modo di vivere-pensare dei paesi in cui operano.

E’ possibile allora una cooperazione fra Nord e Sud del Mondo che rispetti e sviluppi i paradigmi culturali delle popolazioni locali? Ci sono punti di incontro per evitare forme di assistenzialismo e favorire invece lo scambio dei saperi?

Ne parliamo col prof. Renato Libanora, docente di antropologia dello sviluppo presso l’Università di Firenze.

Interviene Matteo Podrecca del Libero Ateneo della Decrescita di Roma.

Giovedì 18 Febbraio ore 14:30 presso la Facoltà di Ingegneria di via S. Marta 3, aula 1.

Per raggiungerci potete prendere l’autobus numero 4:

http://www.ataf.net/it-IT/Orari-e-percorsi/Orari-e-linee/Linea-4.aspx?LN=it-IT&idC=180&idO=0&Linea=4

Per info: umanesimoanarchico@gmail.com

— Anno Antiaccademico Libertario 2009/2010 —


Pubblicato in eventi e iniziative | Commenti disabilitati su Decrescita e cooperazione non etnocentrica (già pubblicato il 10/02/10 su cusa.splinder.com)

Forme moderne di schiavitù (già pubblicato il 13/01/10 su cusa.splinder.com)

Rivolta di Rosarno

Quello che sta accadendo in questo periodo ha dello scandaloso amici miei. Vediamo riapparire i vecchi e mai esauriti stereotipi dell’immigrato indesiderato, “gli abbiamo dato da mangiare, da vestire, ma la casa no non saprebbero come mantenerla!”(degno parente di “non si affittano case ai meridionali” nell’Italia degli anni ’50-’60) ecco la simpatica dichiarazione di un abitante di Rosarno.

Come Anarchico e soprattutto come Individuo provo un profondo sdegno e una immensa rabbia. Scrolliamoci di dosso questo fardello di inutilità e cominciamo a combattere affinché ogni persona possa essere considerata tale e non come un losco individuo che stupra le nostre donne e ruba il lavoro delle nostre genti. Vili usurpatori di dignità! Che sedete sulle vostre comode sedie rivestite di pelle, sorridenti schiavisti che aizzate il popolo impaurito scacciando il diverso, che inventate “bianchi natali” per effettuare rinnovati pogrom, che esprimete il vostro Potere sorridenti in trasmissioni faziose, che parlate un linguaggio tecnico con l’intento di estromettere le persone comuni, aizzando così la linfa dei luoghi comuni e degli stereotipi.

Come direbbe Kropotkin “La concezione della solidarietà come istinto innato è una condizione da cui non si può prescindere, se si vuole impostare un modello di organizzazione sociale anarchica in cui l’unità fondamentale non sarà più la classe sociale oppressa ma l’individuo, solidale con tutti gli altri membri della sua specie e libero si sviluppare le sue tendenze naturali”.

Sradichiamo dalla nostra mente qualsiasi forma di diffidenza e di razzismo, tutto comincia da “io non sono razzista però..” e con quel però si fa intendere che sotto sotto un po’ razzisti siamo. Ci hanno insegnato a esserlo sin da bambini. Ci hanno insegnato che la furbizia è una cosa giusta, assolutamente no, la furbizia è la prima forma embrionale di sfruttamento. Ci hanno insegnato a diffidare del vicino perché è diverso da noi, quindi a emarginarlo perché non lo si conosce a sufficienza, ci hanno insegnato a guardar storto tutte le diversità. Ripeto: e arrivato il momento di lottare tutti insieme. Abbattiamo tutti i muri, tutte le barriere tutte le diffidenze. “Fidarsi è bene, fidarsi è meglio” direbbe Gandhi.

Come Individui del mondo dal cuore pulsante di amore, rifiutiamo il politico squallore di chi dice che con questi mezzi ci garantiranno la “sicurezza” e la “legalità”. Di queste vuote parole non sappiamo che farne, noi vogliamo solo L’Umanità.

Alla prossima

 

Francesco Albino

Pubblicato in attualità | Commenti disabilitati su Forme moderne di schiavitù (già pubblicato il 13/01/10 su cusa.splinder.com)

Amico Tempo. Libere divagazioni sulla mancanza di Tempo (già pubblicato lo 03/01/10 su cusa.splinder.com)

 

Che fine ha fatto il Tempo? Molti se lo chiedono al giorno d’oggi. Io ogni tanto lo cerco agli angoli

delle strade, nei bus, all’università, ma niente da fare. Sembra che il Tempo sia sparito,tempo sciolto,

volatilizzato. Forse si è reso conto che in questo mondo di produzione

-perfettamente-standardizzata-e-iperveloce-senza-possibilità-di-riposo per lui

non c’è spazio. Più velocità, più produzione, dormire meno, vietare l’ozio.

Questo sembra il diktat imposto un po’ ovunque da politici di ogni stampo. Ciò

si deve in gran parte ad una curiosa malattia dell’uomo contemporaneo: l’amore

per il lavoro. Una frenesia cosmica è entrata in tutte le culture occidentali da

tempo, e aleggia come un nuovo Dio che tutti accomuna e che nessuno risparmia (o quasi)..il

lavoro, per l’appunto. “Il lavoro nobilita l’uomo”, si dice. Ma quando mai?! Quando mai

l’alienazione lavorativa o il dovere di spalare la merda altrui sono stati piacevoli?! Tutt’al più sarà il

contrario. La forza dell’uomo riesce a trasformare anche la merda in fiori.

Tornando a noi…

Molte personalità tra cui studiosi marxisti quali Paul Lafargue e poeti nostrani come Andrea Zanzotto, hanno rilevato ed espresso la mancanza di Tempo nella nostra società. E di come la velocità non stia facendo altro che aggiungere catene alle nostre vite, piuttosto che liberaci dalle incombenze.

Riflettere sul Tempo oggi può sembrare anacronistico, un gioco infantile o pseudofilosofico. Ma mai un momento storico è stato tanto buono per parlarne. Pensateci! Vi ricordate di quando eravate bambini?quanto era più bello quando il mondo girava lento? Quando l’ozio era considerato un diritto e non un vizio? Quando era ancora possibile perdersi in lunghe passeggiate in campagna o nei sobborghi della città? Non vi sembra anche  a voi che l’uomo sia andato un po’ oltre? Che stia facendo born- out (girare a vuoto)? Che falsi miti quali l’industrialismo spinto, il consumismo, il fast (-food, -dance, -life, -buy..) e tutte le modalità “veloci”stiano facendo diventare l’uomo macchina, proprio perché riducono lo spazio del suo Tempo? E se è così, perché un animale deve rassegnarsi ad essere macchina?La frenesia è dunque un vizio, una virtù o un male da estirpare.

L’uomo senza Tempo è vuoto ed effimero quanto un attaccapanni. E’ incapacità di ragionare, di sognare, di gustare la bellezza della vita. Personalmente considero il Tempo come fondamentale per crescere un individuo sano, libero e pensante. Altrimenti non siamo che ectoplasmi a servizio del ticchettio di un orologio (tiranno pure esso. eheh).

Pensate ad un lavoratore medio. Sveglia alle ore 8. Lavoro. Pausa pranzo di un’ora o giù di lì. Lavoro. Rientro a casa, due ore di pausa. Letto e….riparte il giro.

Ora, senza fare di tutta l’erba un fascio, mi sembra che la situazione della massa sia più o meno questa. E la domanda è: possibile che non riusciamo a ritagliare degli spazi più ampi di Tempo per noi stessi? Per la nostra vita? Per le nostre vere passioni, per stare con gli altri?

Personalmente ritengo sconvolgente queste prospettive sopra enunciate. Correre ansiosamente verso l’ignoto mi sembra sempre strano, soprattutto quando si può camminare. E’ per questo, a mio avviso, che bisogna rovesciare il famoso detto “ Il Tempo è denaro” in “ denaro è il Tempo” e iniziare a lottare per difendere il diritto al proprio Tempo. Se volessimo tradurlo in slogan suonerebbe più o meno come: “smettila di correre, sdraiati e goditi lo spettacolo”.

Non voglio aprire un dibattito sull’industrialismo, sul termine progresso, e su tutti quei meccanismi di velocizzazione che stanno rendendo la vita una corsa contro il Tempo. Perché, per quanto interessanti, la mia analisi verte prima di tutto sulla componente emotiva più che socio-politica. Può forse essere diversamente?

Vivere con lentezzaIl Tempo è come l’acqua: indispensabile per vivere. E i popoli poveri di materia ma ricchi di spirito come quelli del Terzo mondo lo sanno bene. Lì è l’uomo che possiede il Tempo, non viceversa. In ogni caso, anche senza andare tanto distanti basta guardare all’Italia di 40 anni fa: povera forse, ma felice e bella (il famoso Belpaese). Quando il Tempo aveva ancora un valore.

Non voglio di certo mitizzare il passato,l’immobilismo o il non-fare-nulla-sempre. Ma la sclerotizzazione e la nevrastenia moderna mi sembrano umanamente insostenibili. Dal punto di vista biologico e dei bio-ritmi prima di tutto.

Forse in tutto questo delirio logico ho perso frammenti di quello che volevo dire, oppure ho enfatizzato troppo certi aspetti e questioni tralasciandone altre. Ma lo spirito con cui ho scritto questo pezzo è di incuriosirvi a diventare “Cercatori del Tempo Perduto”…e interrogarvi sul peso che il Tempo o la sua mancanza ha ormai nelle nostre vite. Inoltre vi esorto a diventare sostenitori del “Diritto al Tempo”. Difenderci dalla Violenta Velocità è il primo passo (rivoluzionario) per riappropriarci del contenuto della parola vita e uomo, nel loro senso più vero e pieno.

Fate con calma, mi raccomando..

Tutti i mali degli uomini derivano da una sola ragione: non sono capaci di starsene in una camera a riposare.” Pascal

 

Tommy


Pubblicato in umanesimo | Commenti disabilitati su Amico Tempo. Libere divagazioni sulla mancanza di Tempo (già pubblicato lo 03/01/10 su cusa.splinder.com)

In memoria di Giuseppe Pinelli (già pubblicato il 16/12/09 su cusa.splinder.com)


A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico a cui non piaceva la violenza. 
E forse proprio per questo il potere non trovò altro modo per incolparlo innocente dell’orrenda strage di Piazza Fontana, dal potere stesso realizzata, che non fosse quello di gettarlo dal 4° piano della Questura di Milano.

Pinelli

Nel 40° anniversario del suo assassinio, ci uniamo al ricordo dei familiari e di tutti i compagni e le compagne che in questi giorni lo stanno commemorando in tante iniziative su tutto il territorio italiano.

Ballata dell’anarchico Pinelli

Pubblicato in eventi e iniziative | Commenti disabilitati su In memoria di Giuseppe Pinelli (già pubblicato il 16/12/09 su cusa.splinder.com)

Piazza Fontana 40 anni dopo, ovvero non c’è Stato che non sia terrorista (già pubblicato il 12/12/09 su cusa.splinder.com)

Sono passati esattamente quarant’anni da quando una bomba esplose a Milano nella sede di Piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura, facendo 17 morti e 88 feriti, ma ancora oggi non sono stati riconosciuti i veri responsabili di quella orrenda strage. E se i responsabili vanno trovati per mezzo dei tribunali, allora quella di Piazza Fontana resterà per sempre una strage impunita. Perché quella di Piazza Fontana è stata una strage di Stato, ed è impossibile pensare che lo Stato possa processare e condannare sé stesso.

Quei morti e quei feriti furono infatti le prime di una serie di vittime sacrificate all’altare della Ragion di Stato, in nome della reazione contro i movimenti di studenti ed operai che in quegli anni stavano mettendo a soqquadro il sistemaStrage di p.za Fontana sociale. In Italia come in tante altre parti di un Mondo diviso in due blocchi contrapposti, ma ugualmente nemici dei migliori aneliti di libertà. Lo spavento del potere fu tanto, tale che i movimenti ed i gruppi rivoluzionari dovevano essere infangati agli occhi dell’opinione pubblica per cementare quest’ultima alla difesa delle istituzioni e della tradizione. E allora quale miglior modo se non quello di trasferire su di loro quella che in realtà è la vera natura più intima dello Stato, ovvero la barbarie terrorista?

A farne le spese principali furono gli anarchici, fin da subito indagati ed additati come i responsabili, ed in particolare il compagno ferroviere Giuseppe Pinelli, ingiustamente accusato e poi considerato colpevole dopo essere stato defenestrato dal quarto piano della questura di Milano.

Si è parlato a lungo di atto neofascista finalizzato a realizzare un colpo di Stato e non lo si può escludere. Ma quel che è successo quarant’anni fa – così come quello che succede oggi – può rientrare perfettamente nelle logiche di polizia di uno Stato democratico membro della NATO ed alleato militare degli USA, come era ed è tuttora quello italiano. Perché i servizi segreti e la logica del Segreto di Stato, costituiscono la quintessenza di quella Ragion di Stato secondo la quale “per un bene superiore è lecito fare qualsiasi tipo di male”. Che è il principio fondante di qualsiasi formazione statale di ogni bandiera, e che fa dunque dello Stato in assoluto la setta più diffusa al Mondo. Come dimenticare allora anche quel Palmiro Togliatti, fra i padri della Costituzione Italiana, amico personale e per anni collaboratore di Stalin, baffone costruttore di un altro dei servizi di intelligence più potenti della storia e operante a pieno regime in quegli anni?

Noi forse però qualcosa, a distanza di quattro decenni, da Piazza Fontana l’abbiamo imparato. E cioè che se rispondiamo alla barbarie del potere riproducendone il linguaggio della violenza, sarà il sistema a vincere. Mentre se ricerchiamo una piena corrispondenza tra mezzi e fini, la vittoria potrà essere di tutte le donne e gli uomini del Mondo. 

 

CUSA

Pubblicato in attualità | Commenti disabilitati su Piazza Fontana 40 anni dopo, ovvero non c’è Stato che non sia terrorista (già pubblicato il 12/12/09 su cusa.splinder.com)

Cambi di paradigmi (già pubblicato lo 07/12/09 su cusa.splinder.com)

In un suo recente libro, “Per un nuovo umanesimo anarchico”, Andrea Papi ha affidato un’importanza centrale, nell’immaginare l’azione ed il pensiero libertario del terzo millennio, al tema della necessità di un cambio di paradigma. Egli intende per paradigma, secondo le parole di Thomas Kuhn, “l’insieme di teorie, di leggi e di strumenti che definiscono una tradizione di ricerca in cui le teorie sono accettate universalmente”. E sottolinea dunque il bisogno di passare da quello dell’antropocentrismo a quello del contesto reticolare.
L’ “antropocentrismo” significa letteralmente che al centro del Mondo e dell’Universo c’è l’uomo, dei quali egli – in questa prospettiva – può disporne a suo piacimento in una posizione di superiorità rispetto alle altre specie. E’ questo appunto il paradigma a partire dal quale ha potuto nascere e svilupparsi quel sistema capitalista e industrialista che sta producendo gli squilibri ecologici e gli stravolgimenti climatici. Del quale il prossimo triste atto, è proprio quel vertice di Copenhagen nel quale tutto è già stato deciso anticipatamente affinché niente venga deciso veramente.
Globo

Papi propone invece un contesto privo di qualsiasi centro emanatore, del quale la specie umana sia uno dei molteplici componenti in un rapporto di reciprocità col bio-contesto. Questo cambio paradigmatico rappresenta un passaggio fondamentale, principalmente perché vorrebbe dire purgare il distillato mai veramente smaltito di una cultura religiosa, ma non è l’unico.

All’interno di un eventuale contesto reticolare possibile c’è un altro importante paradigma da cambiare, che nasce successivamente a quello dell’antropocentrismo e forse per certi versi anche in contrasto, ma che paradossalmente è non meno fondante per quanto riguarda lo sviluppo dell’industrialismo in seno alla così detta civiltà occidentale in epoca contemporanea. Si potrebbe provare a definirlo così: dal paradigma dello scientismo determinista a quello del soggetto agente.

Scientismo” significa assolutizzare la conoscenza scientifica e quindi razionale ed oggettiva. “Determinismo”, che conseguentemente, in un rapporto di causa-effetto, tutto ciò che avviene è predeterminato. Il secondo imprigiona l’essere umano e la sua azione (lasciando per adesso in sospeso la questione per quanto riguarda le altre specie, la quale ci porterebbe troppo lontano) ad una determinatezza. Mentre il primo lo rende di conseguenza sempre in qualche modo inquadrabile e quindi controllabile e governabile.

Al contrario il paradigma del soggetto agente significherebbe che abbiamo sempre potenzialmente libertà di scegliere.

Difatti il prodotto storico dello scientismo determinista è stato quello di una scienza supposta “priva di finalità”, la quale ha finito così per diventare serva di ciò che per l’appunto è disintenzionale perché è impositivo: il dominio, quello borghese capitalista in questo caso. Così, invece degli esseri viventi e delle loro necessità, il sapere scientifico vede i grafici dell’andamento delle borse, le tabelle coi fatturati delle economie di scala, le statistiche dei sondaggi di marketing, le cavie da laboratorio, ecc. E così eccoci qua ad organizzare la contestazione ad un nuovo vertice mondiale sul clima.

Ma accettare il paradigma del soggetto agente non può non porre un questione di fondo alle proposte alternative e ad i progetti più a lungo termine che dobbiamo provare a fare uscire da questa contestazione: se l’essere umano ha da essere libero e per essere tale non può essere costretto ad una determinatezza, se egli ha bisogno di trasformare le condizioni oggettive nelle quali storicamente si viene a trovare, allora ha bisogno anche di trasformare il proprio habitat e quindi l’ambiente naturale. In definitiva: la specie umana può integrarsi all’ecosistema o può rendersi sostenibile ad esso?

Per chi conosce un po’ della storia del pensiero anarchico, è un po’ l’eterna diatriba Kropotkin/Malatesta: l’anarchia è lotta per l’animalità umana o è lotta dell’uomo contro la natura?

Forse non è nessuna delle due. Forse l’essere umano (per adesso limitiamoci ad esso) può evolvere intenzionalmente nella propria natura e in quella circostante proprio per trovare un equilibrio (non antropocentrico) con l’ecosistema e con le altre specie che lo popolano.

Ma questa ovviamente è soltanto un’ipotesi, la quale potrà dirci della sua validità soltanto alla prova della decrescita.

 

Edoardo


Pubblicato in attualità, ecologia | Commenti disabilitati su Cambi di paradigmi (già pubblicato lo 07/12/09 su cusa.splinder.com)