IN MORTE DI SAMB MODOU E DIOP MOR (già pubblicato il 13/12/11 su cusa.splinder.com)

Sarebbe meglio cambiare espressioni, cambiare le parole, magari addirittura la lingua. Dato che qui, in questa città, gli anti sembrano una conferma alle parole che li seguono.
Si fa presto a dire antifascismo o antirazzismo.
Muoiono così due senegalesi, che se erano italiani si sapeva subito il loro nome, i giornalisti non si sbagliavano tanto facilmente (salvo il signor Mentolo che su La7 chiama Luciano, il ventenne morto solo ieri, Francesco Pinna).  Samb Modou e Diop Mor ad ogni modo. Venditori ambulanti, sorridenti segnali di un sistema in disfacimento, loro, Samb e Diop che non avremmo mai incontrato, mai conosciuto, con cui probabilmente non avremmo mai scambiato che qualche iteriezione del tipo ‘A quanto la fai sta borsa?’. Me lo immagino l’articolo che leggeremo domani su qualunque quotidiano. Un articolo che comincia così. Partire dalla retorica sempre e comunque. Dire prima di tutto che noi siamo buoni e che quello era solo un pazzo. Dire che noi da oggi in poi c’impegnamo sempre meglio e sempre di più, trincerati per bene dietro i nostri ‘anti’. Che non sono giubbotti anti-proiettile, nè parole nuove nelle orecchie di un vecchio panzone con il pallino del fantasy celtico…Non si può dire nulla.                                     

Ci guardavamo tutti instupiditi, oggi, perchè quando gli elicotteri ti ronzano sulla testa, non puoi restare in casa. Anche se non si può dire nulla, meglio essere lì, a farti tradurre quella manciata di parole in wolof dal tizio che ha cercato di venderti lo stesso libro per mesi, davanti alla Edison. Che poi quando ti saluta in mezzo alla folla, sorridi che almeno non è lui, che non è proprio lui ad essere crepato, così, per strada. Senza alcun motivo.
Perchè la follia non è un motivo. Semmai è un fattore scatenante. Troppo comodo dire che una persona è pazza e per questo bisogna far tornare tutto e in fretta alla normalità. Quale normalità? Se non si fosse ucciso, non sarebbe andato in galera come accade a Anders Behering, dichiarato pazzo e scampato alle carceri. Si è ucciso? Decisamente una prova che è pazzo, no?
No. Affatto. Eventi di questo genere segnalano alcune cose ben chiare. La solitudine sovrumana e mostruosa di certe idee, distanti anni luce dalla realtà e plasmanti universi paralleli di ‘giustizia’ promulgati in tutta legittimità perfino da alcuni dei parlamentari (serve parlare di Borghezio?) di questo paese.
Il problema non è la pazzia.
Ma la politica.
E quanto la politica può fare da companatico ideale a quello che è l’orribile pane della fragilità di un essere umano. Il problema è politico perchè di gente pazza ce n’è tanta in giro, e magari come accadeva all’ignoto signor Smith, un giorno tira fuori il suo fucile e spara sulla piazza sotto casa tua. Tutti dicono che era tanto una brava persona però… Beh, forse quello possiamo definirlo ‘solo’ un disturbo e lasciar scrollare le spalle con lucida consapevolezza sulla fatalità della vita.
Ma oggi no, non me la sento.Liquidare il gesto di un folle come fatalmente folle. Alla follia è stato dato un contenuto. Un imput. Un bersaglio. Alla follia non è stata indicata la folla indistinta, stavolta, ma dei ragazzi neri. Sconosciuti perchè neri. Nemici perchè neri. Questa è la verità con cui occorre confrontarci.

Me lo immagino questo signore trippa ridente mentre macina l’idiozia del suo rancore verso l’ignoto indicatogli nei solerti opifici d’ignoranza – tali pound – da quei ‘camerati’ che di lui ridevano… Perchè si poteva solo ridere, quando era in vita, di uno così, e dei discorsi che m’immagino poteva tenere. Nei suoi libri e fuori. Vittima lui per primo di quel quieto buonsenso quotidiano dietro cui si maschera ogni cosa: la lucidità del killer, l’abominio di uno che non sa niente oltre la sua paura. Che gli mettono in bocca i rosari del razzismo, sempre gli stessi, identici a quelli di sempre, che dire falsi è quasi insultarsi tutti l’un con l’altro dato che la biologia, per prima, non ha mai confermato senso alcuno al razzismo.
E infatti ognuno può verificare tutti i giorni della sua vita che non ne ha nessuno.
Per questo, oggi, non mi fido più degli ‘anti’, voglio una parola nuova che non riproponga quella vecchia, che non ci renda  costretti a pronunciarla ogni volta, sempre, certi di sconfiggere quella che neutralizziamo con un misero ‘anti’.
Per adesso dico che due giovani uomini, Samb e Diop, oggi sono stati uccisi.
E non li faccio morire io, due volte, per un ‘anti’ che non funziona.

Carmen Voita

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Libero brainstorming collettivo sui fatti di Roma (già pubblicato il 16/10/11 su cusa.splinder.com)

In merito agli scontri di ieri vorrei provare a mettere in evidenza una modalità d’interpretazione non strumentale e strumentalizzabile degli scontri.

Prima di tutto la violenza non nasce nel vuoto e si potrebbe quasi dire che non nasce affatto, è costantemente presente nel sottofondo delle nostre esistenze quotidiane. Il fatto che a un certo punto si spacchino le vetrine o si dia fuoco a un blindato non significa affatto che si tratti di ‘delinquenti’ o di ‘teste calde’, black blok e total black che sono, ed è del tutto evidente, sigle vuote, formule dell’acqua calda.  C’è gente che non ha strumenti e modalità efficaci, tanto quanto lo è la violenza, per opporsi a un sistema di vita fagocitante quale quello in cui siamo inseriti e contro il quale non abbiamo alcun potere. La violenza, triste o deludente che sia, rimane ancora nel 2011 l’unico strumento di comunicazione dell’incomunicabile dolore di vivere come siamo costretti, ci constringiamo, ci costringono a vivere. Le sfumature non hanno definibilità ovvie, bisogna solo coglierle. La vetrina rotta di una banca non è la vetrina rotta al ciabattino sotto casa mia. La casa incendiata del mio vicino non è l’ex caserma dei carabinieri. Non c’è tempo, nello scontro, di pensare ai simboli, agli immaginari, si agisce perchè le mani sono vuote, e prudono di rabbia incontenibile. Non condanno, ma non c’è nulla da approvare perchè la violenza non è qualcosa che si sceglie, o quantomeno si può scegliere di non affermarla quando a monte del suo esistere ed esplicitarsi c’è un lavoro di creazione, degli strumenti atti a com-prenderla, affrontarla, vanificarla. Per cui, cosa condannare? e soprattutto in nome di cosa?

Ma non si vergognano los indignados di scendere in piazza a gridare valori vuoti contro il nulla dei media che avanza sempre di più, loro il cui fine pare quello di farsi le fotografie da mettere su facebook perchè sia detto che pure loro c’erano, e pure loro hanno varcato il rito di passaggio della ‘lotta’ come i loro panciuti padri sessantottini, non si vergognano tutti quelli che vanno alle manifestazioni con lo stesso spirito con cui mia nonna andava alla processione del santo del paese, non si vergognano quelli che s’inorridiscono della violenza esplicita quando il mondo che costruiscono per noi nei loro parlamenti trasuda la violenza implicita delle cose mai chiamate con il loro nome?

ci fottono su tutto,

ma non sull’azione, dato che in alcuni momenti (un presidente del consiglio che non si dimetterà mai nonostante ciò che tutti sanno e strasanno) è proprio la violenza a sembrare l’unica cosa ‘reale’.

per cui non condanno ma non c’è niente da approvare perchè la violenza non ha mai risolto nulla, ed è certamente una parentesi che deve chiudersi ed esistere se è già esistita. infondo scrivo il giorno dopo il già accaduto.

ci fa orrore l’esplicito,

ma non viene dal nulla, non è nulla.

per cui, non m’inorgoglisco della violenza (forse davvero altrettanto borghese, m’insegnava un mio compagno di blog, del legalismo) ma nemmeno me la sento di bollare il mal-essere come delinquenza.
la delinquenza è piuttosto un effetto che una causa.

quel mal-essere, quella distruzione, ha la sua storia.

e deve necessariamente essere raccontata.

lasciamo inorridire i preti, i cultori del laicismo religioso e della democrazia sacralizzata. scaviamo, cazzo, scaviamo sotto la scorza di questi servizi televisivi ansiosi solo di sbattere il mostro in prima pagina (che poi basterebbe si facessero una bella fotografia di gruppo tra di loro) , e restituiamo alle persone non più solo l’evento ma la sua storia, le sue ragioni implicite, i suoi dolori più profondi. 

(carmen voita)

 

Penso che dobbiamo fare attenzione a non fare “di tutt’erba un fascio”, né fra quelli che i media hanno definito “manifestanti pacifici” né fra quelli che hanno definito “i violenti”. La strumentalizzazione mediatica dopo la manifestazione di sabato è stata – al solito – squallida e manichea, almeno quanto le dichiarazioni a caldo di tutti i politicanti di turno, pronti a fare blocco compatto e addirittura a venire incontro (ovviamente e strategicamente a posteriori) alle ragioni della protesta – da Draghi fino a Vendola e da Vendola fino a Draghi – pur di addomesticare la rabbia che esplode a grappoli sotto questa crisi senza fondo, e la radicalità che da essa si può sprigionare.

Per quanto riguarda gli scontri, penso si debba fare distinzione fra disperazione/esasperazione, e strategia. In piazza S. Giovanni – per quel che ho potuto vedere e per quel che mi hanno suggerito fin qui le mie esperienze passate – penso ci fosse anche tantissima di quella rabbia mista ad impotenza che cova nelle nuove generazioni (ma non solo: a detta di alcuni compagni, negli scontri c’erano anche dei 40/50enni) come magma pronto ad eruttare. Quella rabbia – concordo con Carmen – non va condannata né demonizzata come preti.

Ma in prima fila contro le cariche della polizia e nei roghi di blindati, SUV e auto più o meno ricche ed ex-caserme, credo ci fossero anche delle strategie – individuali o di gruppo – più o meno volute.

Di fronte a tutto ciò non mi faccio alcun problema di tipo moralista. La questione che mi pongo non è neanche tanto <<E’ giusto o meno quello che hanno fatto?>>; quanto piuttosto: <<Avrei fatto o meno la stessa cosa?>>. E dopo essere stato in corteo e in p.za S. Giovanni, mi sono risposto di no.

La ragione di fondo è questa: il tipo di strategia sviluppata dai singoli e dai gruppi che hanno preannunciato “l’insurrezione” (vedi post su Indymediahttp://italy.indymedia.org/node/864), e in qualche modo preparato possibili scontri di piazza, è una strategia sul lungo periodo inevitabilmente minoritaria, e tale si è dimostrata di essere anche sabato scorso.

Solo una (sempre più) ristretta élite è infatti in grado di dirigere sul (sempre più) lungo periodo uno scontro di tipo frontale (più o meno difensivo che sia) con le forze dell’ordine. Per farlo bisogna infatti essere grossi, cazzuti, armati di caschi e scudi, molotov o bombe carta, ma soprattutto bisogna essere (sempre più) organizzativamente branchizzati e/o militarizzati.

Per di più a monte di tutto ciò c’è il dato di fatto che per quanto grosso, cazzuto, armato e branco-militarizzato tu possa essere, lo Stato arriva a disporre di un vero e proprio esercito regolare con tanto di aviazione ed artiglieria pesante che nei casi più estremi non si fa eccessivi problemi ad utilizzare (vedi la storia di tutte le guerre civili, vedi la recente vicenda libica).

Questa strategia è dunque solitamente destinata a due tipi principali di sbocchi, apparentemente diametralmente opposti ma essenzialmente speculari: 1) Resistere qualche ora (o al massimo qualche giorno) nutrendosi anche dell’ingenuità e della disperazione soprattutto di molti giovani/giovanissimi (che poi spesso sono i primi a rimetterci la pelle, com’è successo anche a Genova nel 2001) per poi barcamenarsi fra denunce, perquisizioni, arresti, ossa rotte e teste spaccate, mistificazioni mediatiche e infangamento o strumentalizzazione dei contenuti e delle ragioni della lotta (com’è successo a Roma sabato scorso). 2) Confidare nell’intervento di un potere che capovolga i rapporti di forza a favore degli insorti, potere che per essere tale deve gioco forza essere più concentrato, militarizzato, grosso brutto e cattivo di quello inizialmente osteggiato (com’è successo in Libia con l’intervento militare della NATO).

Sullo stesso post di Indymedia e sulle bocche di molti già quando sono arrivato al corteo, girava la voce che i più arditi avrebbero preso una piazza (verosimilmente già p.za S. Giovanni) per farne una nuova Tahrir. Ma il successo – sia pur criticabile nei contenuti e nelle rivendicazioni del dopo Mubarak – dei manifestanti egiziani credo sia stato dovuto proprio al fatto di aver saputo costruire un conflitto non frontale con le forze armate del regime, tendenzialmente non violento e quindi molto più accessibile, diffuso e duraturo, ma non per questo meno rabbioso, forte, determinato, consapevole, anzi:http://it.peacereporter.net/articolo/26844/Egitto%2C+il+giorno+dopo

Ed è sempre stato proprio questo ciò che i rivoluzionari non violenti hanno sostenuto in favore del loro tipo di approccio, piuttosto che di quello di derivazione ottocentesca che vede nella violenza un aspetto fondamentale di qualsiasi vittoria rivoluzionaria o insurrezionale: i mezzi e le strategie di lotta non violenta, se anche possono ottenere nell’immediato esiti apparentemente meno pieni e sovversivi di quelli violenti/armati, in realtà ne ottengono di più duraturi e radicali sul lungo periodo.

La violenza in sé per sé non si indirizza tanto al raggiungimento di un determinato obbiettivo, quanto ad ottenerlo in tempi immediati.

Sicuramente anche in quest’ottica possono porsi dei problemi di legittima difesa e in ogni caso ci sono situazioni in cui l’uso della forza (fino ad arrivare a quella armata) può rivelarsi indispensabile. Sotto l’occupazione nazista non potevi andare in piazza con le mani alzate e durante la guerra civile Spagnola non c’erano molte alternative fra l’andare al fronte o l’essere massacrato, se avevi anche solo difeso una qualsiasi delle forze antifasciste.
Ma questo problema e gli altri che di conseguenza ne derivano dovrebbero porsi solo come corollari di un approccio di tipo non violento e della maggiore espansività ed orizzontalità che esso consente.

Gli stessi indignados – che vanno anch’essi sicuramente criticati dal punto di vista dei contenuti e delle rivendicazioni, ingenuamente riformistiche, democratiche e forse anche un po’ buoniste – hanno però dimostrato di poter tenere una piazza per molto più tempo, influendo così più profondamente sia sulle coscienze che sui poteri reali.

In Italia, dove da dopo gli anni ’70 si rincorrono replicandosi all’infinito le due logiche speculari degli scontri di p.za S. Giovanni e di quelli che Carmen ha giustamente definito “cortei-processione” (ovvero l’eterno binomio “partito/sindacato-chiesa e cretinismo estremista), fenomeni come la Primavera Araba o Occupy Wall Street per dire (dal punto di vista dei metodi e dell’espansione delle lotte intendo), ce li sogniamo. Men che mai sabato scorso a Roma si è visto niente del genere nel così detto “corteo pacifico” che tanto è piaciuto a media e politicanti.

Proviamo a cominciare noi allora, proviamo a farlo senza paura di radicalizzarne le lotte e le rivendicazioni. Per esempio: sabato tagliando esternamente il corteo mi sembrava che la pula, tutta intenta a presidiare le vie d’accesso ai merdosi monumenti e palazzi del merdoso potere, avesse lasciato altri margini abbastanza ampi di evasione dal percorso ufficiale previsto per il corteo. Perché la prossima volta non tentare un’invasione pacifica ma rivoluzionaria, dove possibile, del centro cittadino?
Stretta è la foglia, larga e la via,

Edo

 

Le Manifestazioni sono diventate una vetrina ove possiamo assistere alla parata dei luoghi comuni e spot pseudopubblicitari, poi quando ci scappa l’atto violento iniziano la gare alle interpretazioni ipocrite da parte dei detentori del potere mediatico e sociale

Lo scendere in piazza e far capire quello che si prova è un atto che ha ancora significato ma i mezzi su come ottenere ascolto vanno decisamente rinnovati.

Usando la violenza come schema di giudizio si arriva a confondere quello che è prioritario e quello che non lo è. Io vivo in prima persona la situazione di precariato quindi posso comprendere lo stato d’animo di chi ha dentro solo sdegno e insoddisfazione ogni giorno montante come se fosse un pugile in un ring con se stesso.

Come dice caparezza nella canzone la fitta sassaiola dell’ingiuria “mi piace sapermi diverso, piacere perverso che riverso in versi” mi sembra frase assai significativa.

Il nostro sguardo volge verso la massa oceanica di manifestanti, potremmo esserci anche noi li in mezzo no?

Come Umanisti Anarchici riteniamo necessaria un analisi approfondita della situazione, ma come ho descritto negli articoli analisi del modo di vivere nel sistema capitalista siam tutti burattini legati al filo dell’indifferenza,che ne dite utenti di stracciare tutti insieme questi fili e volare liberi verso il cielo della consapevolezza?si ha la percezione che il capitalismo stia crollando? Niente paura iniziamo con le nostre idee, diverse uniche, magnifiche, mandando riccamente a quel paese ben pensanti intellettualoidi ospiti fissi di squallide trasmissioni televisive. Citando de andrè “si sa che la gente da buoni consigli sentendosi come gesù nel tempio, si sa che la gente da buoni consigli quando non puo’ più dare cattivo esempio”. Innalzate i vostri animi nella certezza che è arrivato il momento di poter creare con le nostre mani un mondo che nel nostro io interiore abbiamo sempre sognato. Noi usiamo i mezzi che abbiamo, voi usate i vostri gustandovi il piacere unico di entrare nella storia e della creazione del buono

 

Vostro umile, semplice,sintetico Francesco

 

In primis, evitiamo una lettura dualistica della manifestazione del 15 ottobre a Roma. Le interpretazioni in stile bianco/nero non sono utili nell’analisi dei fenomeni.  Tantomeno di quelli sociali, dove l’uomo, variabile infinita e indefinita, è protagonista.

Peccato. Un vero peccato che tutta la sana e giusta rabbia di un paese ormai conscio del baratro che è innanzi a lui, scivoli via in percorsi e pratiche dalla scarsa incidenza ed efficacia. Fastidioso che finisca anzi, in alcuni casi, per creare più spaccature che unità in un movimento giovanissimo e fragile. Minandone così alle origini la maturazione, le possibilità di ampliamento e di partecipazione popolare e scoprendo il fianco alla repressione delle autorità. (non c’è voluto molto vero? Quasi a far pensare che non stessero aspettando altro. Del resto, da Pearl Harbour a Cossiga, la storia della strategia repressiva è abbastanza nota.. Chissà.). Di pessimo gusto poi l’uso mediatico che ne è stato fatto, riproponendo la solita brodaglia fotografica-narrativa dei cattivoni, corredata di identikit e presunte richieste di delazione. Ma chi non se lo sarebbe aspettato? Del resto un giornalismo italiano in picchiata nelle vendite e in-credibilità, non può che riciclare le sue vecchie formule per cercare di rigenerarsi…puah.

Da un lato, come altri hanno scritto sul blog, ritengo utile, doveroso e sensibile, approfondire le radici di questa violenza. Comprenderle e cercare, se possibile, di trasformarle in qualcosa che permetta alle persone che l’hanno espressa di poterla vivere meglio, perché quella rabbia lì, fucina di potenziali violenze, uccide giorno dopo giorno, macerando le persone dall’interno . E mi chiedo:  chi è oggi in grado di capire, trasformare e utilizzare questa rabbia, un tempo incanalata in percorsi rivoluzionari? Quali sono gli organismi e le realtà in grado di farlo? Come liberare queste persone da sto cazzo di peso interiore?

Tuttavia non voglio soffermarmi troppo sul capitolo violenza, seppur pantagruelico e interessante, perché voglio dare spazio ad altre considerazioni senza diventare fastidiosamente prolisso. [nota particolare. Il tema della nonviolenza credo che sarà, in riferimento alle modalità di lotta future, uno dei maggiori punti di scontro tra i movimenti, non solamente quelli anarchici e libertari. Viste le ultime manifestazioni, non credete pure voi lo stesso?]

Penso ad esempio, che c’è da incazzarsi con noi stessi, per ben altri motivi.
Io non sono un esperto di lotte sociali etc, ma possibile che non siamo più in grado di inventare paradigmi alternativi di lotta? Com’ è possibile che da tempo a questa parte le uniche idee che arrivano dai movimenti “in prima linea” sono quelle di occupare, ed eventualmente scontrarsi con chi si frappone tra i manifestanti e il loro obiettivo? Lungi da me criticare questa prospettiva, che a mio avviso ha ancora il suo valore. Il problema  è che da tempo a questa parte, mi sembra l’idea totalitaria e totalizzante della pratica politica di piazza. Se così fosse, limiterebbe il pensiero stesso dell’azione di piazza e delle sue possibili pratiche di contestazione e disobbedienza. No?  Hanno ancora senso gli obiettivi di un tempo? E ancora, quanto senso ha in una società complessa e inesistente(si pensi alla finanza) come quella occidentale, bruciare una banca (che magari è assicurata quindi riceve soldi..) o lanciare merda addosso al parlamento (questa è un’idea da realizzare con un aereo…haha.)? Oltre l’aspetto simbolico possiamo ottenere altro da una manifestazione nazionale di un giorno? Non è riduttiva una progettualità politica che punti solamente a “colpire e occupare i simboli del potere”, oppure al contrario è il massimo che si può fare in questi casi? Ottenendo visibilità, e creando un modo altro di vedere e vivere il rapporto stato-cittadini (anzi, persone).

La domanda, credo che ne apra a sua volta una moltitudine.
Come rendere più incisive le azioni portate avanti dai vari soggetti sociali in stato d’agitazione contro la crisi, politica, economica e perché no culturale, di turno. Tutelandone al contempo le differenze peculiari, che dovrebbero essere punti di forza e non di scontro, come accade talvolta.
Forse la manifestazione nazionale di piazza è (diventato)uno spazioristretto per e dell’ azione politica. In questo caso abbiamo bisogno di percorsi e pratiche complementari ad e in esso, pena il riemergere di forme di lotta anacronistiche e tendenzialmente inutili..

To be continued..

William Dostoevskij

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5^a Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria (già pubblicato lo 02/10/11 su cusa.splinder.com)

 

manifesto

locandina dibattito

A Firenze dal 7 al 9 ottobre 2011 presso il Teatro Sachall si terrà la 5^a edizione della Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria, che riunisce case editrici e svariate realtà dell’eterogeneo universo anarchico e libertario. Tre giorni di presentazioni, incontri, dibattiti, arte, musica, giochi, sane mangiate e bevute. Per iniziare a sviluppare un’alternativa reale allo stato di cose attuale.

Il pomeriggio di sabato 8 ci sarà un incontro/dibattito dal titolo “Oltre la crisi: una via libertaria alla decrescita?”, alla cui organizzazione abbiamo contribuito insieme al Libero Ateneo della Decrescita di Roma ed al Collettivo Libertario Fiorentino.
I relatori saranno Stefano Boni dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Maurizio Piccione del comitato No Tav “Spinta dal Bass” della Val Susa e Luciano Lanza di Libertaria. Il dibattito sarà aperto a tutti/e, con precedenza ai singoli ed alle realtà che ne faranno esplicita richiesta, per venire incontro alle esigenze organizzative.

In allegato trovate il programma dell’incontro e il manifesto della Vetrina.

Per info scrivere a sergiomechi@yahoo.it

 

 

CUSA

L’incontro/dibattito sulla Decrescita è risultato essere, a detta degli organizzatori, uno dei più partecipati e animati della storia della Vetrina, con interventi critici e contributi al dibattito, da parte di moltissime delle diverse anime del variegato universo anarchico/libertario. Purtroppo per ragioni tecniche, non siamo in grado di postare i video dell’evento stesso, ma ci auguriamo che possa essere solo l’inizio di un percorso di lungo periodo.

 

 

 

 

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Oltre il gesto femminista (già pubblicato il 27/08/11 su cusa.splinder.com)

Provo a scrivere qualcosa di cui m’importa un bel po’. Qualcosa che fa parte di ogni singola decisione, gesto o scelta del mio presente storico. La mia fica. Eh… già. Il condizionamento culturale e sociale derivato dall’essere nata col gene più anarchico che esista (XX ma anche il finale di genere nella lingua italiana ‘A’ ppunto…) è tale da dover affrontare in questa sede ‘umanista’ e ‘anarchica’ l’atroce questione: donna? senti un po’ ma il femminismo…? Uno degli stessi compagni di blog infatti (qualuno di cui non rivelerò il nome) ha inquadrato la mia presenza, nel suddetto spazio, prima di tutto come ‘presenza femminile-ista-ea’ atta a inaugurare un punto di vista femminilisteo sulle questioni che qui si sceglie di affrontare. Ovviamente, mi lusinga questo genere di ‘apertura’ ma quella che pure è una porta, segnala, a ben vedere, anche la presenza del muro che la fa esistere. Esco subito fuor di metafora citando un autore che considero uno dei pochi sociologi ‘ascoltabili’ degli ultimi vent’anni e cioè Pierre Bourdieu. In uno dei suoi scritti più odiati dalle femministe della prima ora (forse perchè non letto con le dovute attenzioni data la densità dell’argomento e i puerili livori lesbo-amazzonici) che s’intitola ‘Il dominio maschile’, l’autore sottolinea come tale questione – il domino maschile – non concerne tanto il cercarne una causa biologico-cognitiva giustificativa quanto piuttosto il nesso esistente tra ‘differenze sessuali’ e ‘dominio maschile-sottomissione femminile’. Nonostante molti antropologi e antropologhe, nel trattare l’argomento, cadano in uno stato catatonico di bongobonghismo (ossia annoverare a mò di eccezione alla regola o bieco relativismo tout cour quella data tribù sperduta o quel dato gruppo estremista della Terra del fuoco per negare salutari forme di comparativismo non forzato ma dettato dalle contingenze dall’analisi) se si guarda alle condizioni della donna, sia nella linea verticale del tempo che in quella orizzontale della geografia, ci accorgeremo che tale coordinata dominante-dominato, dettata dalla presenza o meno del pene all’altezza del basso ventre, è pressocchè rintracciabile ovunque e comunque.

Bourdieu, a chi interessasse l’argomento, fornisce anche dati empirici molto più rilevanti delle mie sole chiacchiere. Si accorge infatti che la situazione di dominio non è legata di per sé alle pratiche di vita dovute alle differenze sessuali (la cura della prole e l’agricoltura risultano più comode per i cicli fisiologici del corpo femminile rispetto alla caccia o al commercio o alla costruzione delle case) ma al fatto che tali comodità diventano ‘norme innate’ assunte a regola imprescindibile dell’ordinamento sociale. in realtà fuori dal periodo della gravidanza e dell’allattamento non esistono vincoli naturali che impediscano  alle donne di occuparsi di caccia, commercio e quant’altro. Niente ci indica seriamente che esse non possano acquisirne le abilità se non determinate norme consuetudinarie non biologiche dunque. La scarsa abilità femminile in certi mestieri, si sa, è dovuta allo scarso esercizio nel tempo, all’inesistenza di un background forte e determinante come quello maschile su dati ambiti (letterario, scentifico, artigiano ecc.). Se questo genere di ragione è infatti ben inseribile nei nostri schemi di pensiero teorico, ben diversa è la loro attuazione nella pratica. Il problema è infatti l’inserimento della differenza sessuale dentro l’ordine cosmologico ‘naturale’ di altre categorie di pensiero dualista: il sotto e il sopra, il vicino e il lontano, il caldo e il freddo… Inserendo anche la categoria maschio-femmina dentro l’elenco appena fatto abbiamo creato una mappa percettiva del mondo, atta a radicarsi, come è accaduto, nella storia delle umanità. Come tutte le ‘mappe’ infatti anche questo ennesimo posizionamento dei corpi (è proprio il caso di dirlo) permette la rintracciabilità e il confinamento nei ruoli imposti dall’ordine ‘dato’ solo perchè già presente alla nostra nascita e autoperpetuantesi autonomamente nelle istituzioni quali, per noi europei ad esempio, il sistema educativo o la chiesa. Se la dicitura ‘donna’ allo stesso modo di ‘profano’, ‘sotto’, ‘caldo’ ecc ecc si dota di caratteri imprescindibili e contrari alle loro rispettive metà (uomo, sacro, sopra, freddo ecc ecc) ciò contribuisce a creare arbitrariamente modalità di scarto o di inserimento dei tratti distintivi di quella categoria. A ‘naturalizzarli’ insomma è proprio il fatto stesso di essere parte di quell’ordine del mondo in maniera inequivocabile. È questa strategia di inserimento categoriale che non solo è naturalizzata essa stessa come ‘strategia’ (se ne sarebbe potuta scegliere un’altra…) ma fa essere il ‘dominio maschile’ ciò che esso è. Da qui è molto facile fare della differenza anatomica una differenza di compiti, di vedute, di gesti, di atteggiamenti, di cura o di incuria. È molto facile stabilire cosa è donna e cosa non lo è, e percorrere cosa è donna come un programma sociale prestabilito e vincente. Tuttavia diffido molto anche dai programmi, altrettanto prestabiliti e troppo speculari a quelli del dominio, di dimostrazione – puramente ostensoria ed ostentativa – di ciò che è essere ‘contro’ tutto questo, e dunque femminista. Mi spiego meglio. Il difetto perenne delle buone idee è spesso quello di essere convertite in banali slogan ed ideologie legaliste perchè meglio spendibili nell’immediato. Questo è precisamente ciò che è accaduto alla prime buone idee del movimento femminista italiano come la legge di interruzione di gravidanze indesiderate o del divorzio. A ben vedere tali buone idee hanno perduto molto nell’essere presentate non come buone idee e basta, ma come il frutto di un alacre e unica ingegneria femminista. Spesso le simpatiche femministe degli anni settanta, con cui mi capita di discorrere, sgranano gli occhi di fronte all’assenza di devozione per la loro causa da parte mia e smettono di ascoltarmi sul nodo della questione più importante che è quello seguente: Perchè far passare dei provvedimenti fondanti come ‘femministi’ e non come ‘umanisti’? D’accordo, erano altri tempi, c’era la chiesa e leggi penose sullo status delle donne seppellite dal tetto coniugale… Ma ciò non toglie che proprio perchè la differenza tra maschi e femmine è puramente anatomica – quale è in definitiva – tali ostentazioni di genere siano assolutamente controproducenti – soprattutto adesso, a quarant’anni dagli zoccoli olandesi e gonne primavera – ad ogni emancipazione reale di un gruppo umano. La ‘violenza simbolica’ che attanaglia i corpi con catene invisibili è dunque anche questo tentativo di ‘slegame’ laddove ci rende più forti accorgerci del legame sottostante. Come dire, siamo prima di tutto esseri umani e poi femmine o maschi. Tuttavia il problema è gravido di asterischi e di belle e rotonde pance di punti interrogativi incinti. Perchè la socializzazione del biologico ha permesso ai dominati di attendere la dominazione tanto quanto ai dominanti di attendere a loro volta allo stesso compito? Non possiamo sentirci più di tanto in colpa se da maschi ossessionati dalla quantità di corpi femminili non riusciamo a fermarci su quello unico e imperfetto della nostra amante di turno, né tantomeno possiamo sentirci in colpa se diamo dell’incapace finocchio al nostro partner che non ci fa ‘venire’ tanto quanto ‘vengono’ le dive del porno. Non è poi così facile adottare nella pratica certe consapevolezze teoriche se la cosmologia you porn alimenta un tipo di immaginario, che alimenta un dato tipo di richieste sessuali, che alimenta un dato tipo di mercato sessuale e via di seguito… Purtroppo tutto questo non è una piramide o una montagna da scalare fino alla causa ultima di tutto, ma è un triste e sterile ‘circolo’ che procede col pilota automatico. Rintracciarne le cause primigenie, anche storiche, ci serve a ben poco se non riusciamo a dirci perchè è andata proprio così, o almeno, che razza di meccanismo c’è sotto? È vero che la percezione del corpo femminile come ‘cosa’ e come luogo di dipendenza fisico dal pensiero maschile è più radicata e visibile ma ciò non significa che i maschi non siano a loro volta dominati dalle categorie in cui devono assolutamente rientrare per essere considerati tali. A ben vedere, anche la posizione maschile non è affatto comoda, né desiderabile.

Il discorso di Bourdieu non è così astratto come può apparire a primo acchito giacchè prende in esame per filo e per segno le istituzioni deputate alla creazione delle disposizioni legate al proprio sesso di nascita e al ‘destino personale’ che, anche grazie ad esso, ci attende. Un mio personale ricordo è quello del frate che ci faceva catechismo in un antro buio del convento, in tenera età – quando sarebbe stato molto meglio ed utile imparare a saltare le staccionate e ad arrampicarsi sugli alberi – che ci diceva, a noi sprovvedute bambine già troppo ammaestrate delle lascivie umane, che il peccato, quando un uomo aveva pensieri impuri sul nostro culetto, era prima di tutto nel nostro ancheggiare atto a tale risultato.

Un piccolo inciso: mi interessava mettere a fuoco con Bourdieu il problema della ruolistica di genere in termini di dominazione ecco perchè pur non ignorando affatto le problematiche di genere riguardanti gli emancipazionismi gay a cui assistiamo e che rientrano in pieno, almeno nel loro gusto fenomenologico, nell’analisi delle cosmologia consumista di diritti legati al genere, non ho ritenuto opportuno soffermarmici in questa sede.

Strategie naturalizzate, disposizioni perpetuate istituzionalmente, immaginari consumisti del corpo… insomma non c’è alcuna soluzione?

Non so se la soluzione c’è, io dal canto mio ho smesso di ascoltare i vuoti lamenti di alcune compagne che si perdono il piacere di ‘donare’ un gesto amoroso a chi gli sta accanto – come preparare il pranzo per tutti o togliere le scarpe al proprio amante dopo una dura giornata passata a scarrozzarci in giro – perchè in apparenza servili segnali di quel ‘dominio’ di cui fin qui si è parlato. Ho notato che di solito, chi si preoccupa tanto del significato di un gesto come questi non solo non riesce a coglierne l’allegria, la gioisità e anche l’innocenza ma crede che basti solo non attenderli per  scongiurare il senso complessivo del dominio-sottimissione del genere a cui si appartiene. In realtà ho paura che ciò non annulli affatto la ruolisitca dominati-dominanti ma anzi ci conduca dritti dritti alla perdita del gesto altruista a scapito di quello sterile dell’ideologia. Personalmente adoro il mio caffè e l’atto di prepararlo mi piace così tanto da non provare alcuna noia nel ripeterlo non solo quando qualcuno viene a visitarmi ma quando sono io stessa in visita. Ciò mi rende schiava del ruolo di angelo del focolare in cui era confinata mia madre? Non credo proprio… Sarebbe molto più frustrante negarmi un gesto pratico e piacevole solo per ciò che rappresenta. E se cominciassimo a riappropriarci dei gesti oltre le apparenze? Se cominciasse ad essere superfluo il gesto femminista?

Se la soluzione c’è è nel venire a capo dell’esistenza pratica di quel circolo generativo delle disposizioni e delle strategie naturalizzate al proprio genere provando a ostentare di meno ciò che si vorrebbe essere e cercare di più ciò che si è già. Per caso una femmina. Per caso un maschio.

 

Carmen Voita

Pubblicato in umanesimo | Commenti disabilitati su Oltre il gesto femminista (già pubblicato il 27/08/11 su cusa.splinder.com)

Occhi lucidi in Val Susa (già pubblicato il 29/07/11 su cusa.splinder.com)

Pieni di voglia di protestare, partiamo alle due di mattina da Pisa. Direzione Val di Susa. Studenti, sindacati, centri sociali, anarchici, pacifisti e chissà chi altro, formano un eterogeneo crogiolo di manifestanti  che si appresta a far sentire le sue ragioni a chi crede di poter imporre decisioni autoritarie a minoranze dissidenti, attraverso l’uso di lacrimogeni e demagogia mediatica. C’è chi è contro la Tav, chi forse meno, ma tutti accomunati dallo sdegno nei confronti della (mala) politica italiota. Oramai distante anni luce dal sentire dei cittadini e dai bisogni concreti degli individui. Ovvietà.
Arriviamo ai piedi del castello di Exiles, dove vento e sole ci accolgono ridenti. Dopo un’ora di attesa circa, il corteo inizia a muoversi. Davanti famiglie e bambini, dietro tutti gli altri. Così hanno deciso gli organizzatori dei Comitati NoTav. In realtà, fin da subito il corteo si divide: quello ufficiale e quello non ufficiale, che si inoltra più in alto nella valle e nei boschi. Che sappia io, entrambi formalmente con lo stesso obiettivo: assediare il cantiere della Maddalena come chiaro atto di rivendicazione politica: il diritto della comunità di decidere il suo bene, e il dovere del governo di ascoltare. Non viceversa. Questi sono, o dovrebbero essere, i principi della democrazia. Intesa come rispetto delle minoranze, e partecipazione del demos (popolo).Il sole sulla statale batte forte, il carro musicale sputa canzoni per rallegrare la gente e l’atmosfera è abbastanza serena. Nonostante la rabbia per gli scontri e la violenza poliziesca di qualche giorno prima.

Ad un certo momento, con un gruppo di amici ci stacchiamo dal corteo ufficiale e prendiamo un altro sentiero che va su verso la vallata. Così come noi, fanno moltissime altre persone. Di fatto, oltre a goderci lo splendido paesaggio, ormai a rischio deturpamento per i folli progetti da eco(sui)cidio, camminiamo come muli. E in questo percorso, ci ritroviamo fianco a fianco con persone anziane e locali, a dimostrazione di quanto sia esteso il fronte no-tav. Insomma, non si tratta dei soliti “comunisti” o “studenti sfaccendati che non hanno nulla da fare”. In Val di Susa c’erano individui che sapevano bene quel che facevano, quanto vale questa lotta e l’eventuale sconfitta. Ne avremo conferma anche al ritorno, prima di salire sul pullman, quando in uno scambio di battute con due signori autoctoni, ci sentiamo dire “grazie” per essere venuti da lontano a difesa del loro territorio.

Verso le 13 e qualcosa arriviamo in un borgo e iniziamo a vedere persone che si iniziano a coprire il volto con indumenti o mascherine antigas. Che siano già arrivati i poliziotti? Dopo una breve sosta alla fontana del paesino, andiamo in cerca di capire che sta succedendo. Ci appostiamo allora su uno sperone di roccia, e da lì vediamo che a distanza di un chilometro (la sparo eh!), si stanno fronteggiando i manifestanti e la polizia. Gli uni nei boschi e gli altri nello spiazzo antistante. Lacrimogeni, idranti, e qualche carica a cui si contrappone il lancio di pietre o quant’altro. Questo riuscivamo a vedere dalla nostra posizione (curioso è che seppure ad una tale distanza, ad alcuni di noi bruciassero già gli occhi). Decidiamo allora di fare un tentativo: addentrarci nei sentieri per andare a vedere cosa sta succedendo, da più vicino. Ma nemmeno il tempo di inoltrarci tra i rami e rovi della boscaglia, che i manifestanti di ritorno dalla zona degli scontri, ci dicono che è inutile: senza maschere antigas non si riesce a respirare. Puf, salta il piano. Ci fermiamo allora nel paesino a mangiare e riposarci. Lì, nel concentramento di manifestanti, c’è anche chi torna malconcio, come ad esempio un ragazzo con il segno di un lacrimogeno sul petto (testimonianza del fatto che hanno sparato ad altezza uomo?!). Dopo un po’ si riparte, cercando di raggiungere il corteo ufficiale dall’altra parte della valle, a Chiomonte.

Manco a dirlo. Scendiamo per un sentiero e ci immettiamo su una strada, sopra la quale c’è la tangenziale (ho visto video di finanzieri e poliziotti, che stazionavano lì,  lanciare oggetti  ai manifestanti sotto. Qui un link: https://www.youtube.com/watch?v=SNYfEumFoTM).
Arriviamo allora in un luogo chiamato La Centrale, in cui si stanno fronteggiando poliziotti e manifestanti, divisi da un paio di recinzioni.https://www.youtube.com/watch?v=aY31EQEjdCM&feature=related. Anche qui, piovono lacrimogeni da un lato e pietre dall’alto, il tutto condito da eresie e insulti volanti. Normali tafferugli. Così mi sono parsi, a differenza delle descrizioni apocalittiche riportare dai quotidiani. Nel frattempo, alcuni manifestanti cercano, e in parte riescono, ad abbattere una delle due recinzioni. Di fatto finisce così. Dopo due ore di scontri, la gente inizia ad andarsene, alla spicciolata, in cerca del proprio pullman o macchina con cui tornare a casa.

Chissà con che pensieri in testa.

Molto è stato detto sugli scontri in Val di Susa. Probabilmente troppo. E forse anche, da persone che in Val Susa non ci sono nemmeno state.
In questo breve resoconto personale, spero di aver dato un’idea diversa di quello che è avvenuto.

Almeno per quello che ho potuto vedere io, insieme a qualche amico. Non ho visto terroristi, ne gruppi violenti organizzati e compagnia bella. Piuttosto ho visto un movimento che ha avuto, almeno laddove c’ero io, ben poco di rivoluzionario. Intesa come capacità di incidenza politica. Ho visto quasi la solita messa in scena delle due parti che si fronteggiano e gli affaristi (politici e non) che se la ridono dietro le quinte, comodamente seduti in poltrona.
Strumentalizzare ogni realtà, è semplice e banale. Certe scelte dei manifestanti (e del loro corrispettivo: le così dette forze dell’ordine) lo rende ancora più facile. Sorgono allora spontanee una serie di domande e considerazioni  a carattere sparso.

Partiamo dai sassi lanciati. Hanno davvero un ‘utilità politica per il movimento no-tav? O sono più strumentali ai detentori del potere repressivo? Non si potevano scegliere metodi differenti?  Certo, la mistificazione mediatica è inevitabile, sempre. Ma proprio per questo bisogna evitare il più possibile di prestarsi alle strumentalizzazioni politiche (Questo non vuol dire minimamente rinunciare ad agire, sia chiaro). I ragazzini che lanciavano sassi si sono resi conto di fare il gioco di chi vogliono contestare? Perché il movimento non li ha fermati? Come avrebbe potuto farlo? E ancora, avrebbe dovuto farlo?!

Planando sul campo della filosofia politica spiccia: chi da il diritto-potere ad un governo e/o a uno stato di obbligare una minoranza ad obbedire? Con quale legittimità la maggioranza si impone sulla minoranza? è solo il peso dei rapporti di forza che conta dunque?!  Siamo ancora sicuri che la democrazia rappresentativa sia il massimo, il meglio? Essa rappresenta anche il giusto? O anche qui, la giustizia è la maschera di dominio con cui i forti (spesso i vincitori) impongono uno status-quo ai più deboli?  È ancora questo il tipo di politica che vogliamo (possiamo) realizzare? E per chi lotta, sono ancora efficaci questi metodi di lotta molto spettacolari? Hanno un peso effettivo o forse ci sono alternative migliori altrove? ..

Non continuo, perché le riflessioni in merito sono talmente tante e talmente variegate che…non ho voglia di scriverle. Ognuno ci pensi  come compito per casa.eheh..

Ci si vede alla prossima manifestazione. Magari a lanciare idee e prospettive, piuttosto che solo sassi.

Pier Paolo Gibran

Pubblicato in attualità, ecologia, umanesimo | Commenti disabilitati su Occhi lucidi in Val Susa (già pubblicato il 29/07/11 su cusa.splinder.com)

Analisi del modo di vivere nel sistema capitalista (già pubblicato il 16/06/11 su cusa.splinder.com)

Il sistema capitalista con i suoi ritmi vorticosi riduce le facoltà mentali, il continuo assillo del pensiero della sopravvivenza indebolisce il fisico creando tutto un circolo vizioso che crea profitti alle avide case farmaceutiche. Si potrebbe vivere benissimo senza farmaci, non ci avete mai pensato? Il bisogno dei farmaci è indotto, non a caso ci martellano con le pubblicità cercando di convincerci che ne abbiamo bisogno. Il fatto è che abbiamo perso il rapporto con noi stessi. Come tantissime altre cose. Anche a rischio di sembrare ripetitivo, dico che stiamo subendo una specie di lavaggio del cervello e le conseguenze sono il processo di alienazione che ogni giorno vediamo nelle persone. Come possiamo frenare questo processo? Nella maniera più semplice, riscoprendo noi stessi, prendendoci delle libertà che non crediamo di avere perchè ci hanno disabituato a riflettere, non accettare il concetto di delega delle decisioni, noi siamo gli unici artefici di noi stessi e come tali possiamo prenderci la briga di prendere noi le decisioni che reputiamo importanti e salienti. Voi direte tutto questo è inutile, non è vero se ogni singola persona comincia questo percorso alla fine saremo in tanti e il numero aumenterà sempre di più perché, parliamo chiaramente, ognuno di voi è stufo di subire in silenzio. Allora amici miei che avete la pazienza di leggere i miei articoli, uniamoci uniamoci e ripeto ancora uniamoci, affinchè si possa cambiare con i fatti e non con le parole. La mentalità è come un ammasso informe di creta, lo possiamo plasmare nella maniera migliore.

Ad una sacca considerevole di popolazione viene esclusa la possibilità di arrivare al banchetto del consumo, diverse persone scelgono, o la vita glielo impone, uno stile ai margini.

Le stazioni sono la cartina di tornasole della condizione sociale.

Il buonismo nelle strutture di accoglienza rende rigido l’atteggiamento e impone regole alienanti, se non vengono rispettate l’alternativa è dormire in un treno fermo la notte.

Non è solo con l’adesione a un referendum che le cose migliorano, il referendum è stato un punto di inizio della presa di coscienza della situazione, risvegliati da un secolare sonno letargico.

Sulla linea della consapevolezza bisogna continuare, aderire a un pensiero che tende al miglioramento delle condizioni sia umane che sociali, guardiamoci intorno, non chiudiamo tutti e due gli occhi.

Recentemente il Ministro Brunetta ha dichiarato che noi precari siamo la peggiore Italia, la risposta spontanea è siete la peggior classe politica nella storia del nostro martoriato paese. La classe politica gode di un privilegio che non dovrebbe assolutamente esistere: la delega su decisioni che spettano a noi tutti, non è demagogia è la realtà, un po’ come se noi chiedessimo a uno sconosciuto di andare a pagare le nostre bollette. L’indifferenza causa la stasi e la stasi si nutre del malcontento per poter dare spazio a figure egocentriche che unificano tutto sulle loro sporche e insanguinate mani.

I dittatori sono al potere perchè si nutrono di paura, indecisione e lassismo, le dittature si mantengono sulle menzogne, è ora di dir la verità!

Vostro Francesco  

Pubblicato in anarchia, attualità, socialismo | Commenti disabilitati su Analisi del modo di vivere nel sistema capitalista (già pubblicato il 16/06/11 su cusa.splinder.com)

12 e 13 giugno: 4 SI’ ma per andare oltre le logiche della delega (già pubblicato lo 09/06/11 su cusa.splinder.com)

 

Come libertari non ci facciamo facili illusioni sugli strumenti elettorali o di partecipazione “dal basso” messi a disposizione della società da parte dello Stato, come quello referendario. In quanto non li consideriamo come il mezzo per dare una risposta il più possibile adeguata alle problematiche ed alle necessità della vita su questo pianeta.

Crediamo infatti in un attivismo di tipo variegatamente quotidiano dove mezzi e fini tendano il più possibile a combaciare, dalle cui pratiche concrete e lotte reali possa scaturire la prospettiva di un coordinamento di diversi soggetti e spazi sociali. Ed una regolamentazione autogestionaria non impositiva o coercitiva come attrezzi di miglioramento e potenziamento della vita stessa, da raggiungere tramite processi di autocoscienza in una direzione che inverta la tendenza generale alla concentrazione del potere, propria di tutti i sistemi di dominio.

Tuttavia siamo anche consapevoli del fatto che questa inversione di tendenza – che già di per sé è rivoluzionaria – può avere bisogno per svilupparsi di passare da un gradualismo che implica anche la necessità di trovare delle mediazioni su specifici contesti e conflitti.

Il 12 e il 13 giugno c’è la possibilità di votare o meno per un referendum abrogativo riguardante tre temi (quattro quesiti) che in sé sono di importanza capitale per il repertorio delle rivendicazioni libertarie del presente e del prossimo futuro: la lotta contro la corruzione tipica di qualsiasi classe politica, il libero accesso da parte di tutti/e ad un bene primario come l’acqua, l’opposizione alla costruzione di centrali nucleari sul territorio italiano.

Sappiamo bene che non basta abrogare una legge per risolvere il problema della corruzione politica, in quanto la sua soluzione non può essere affidata alla stessa causa che l’ha generata, ovvero il sistema di poteri dello Stato. Così come sappiamo che non c’è vera parità di opportunità ed accesso ecologico alle risorse della Terra se “pubblico” fa rima con “statale/aziendale” e non con “sociale/autogestito”. Né pieno antidoto al nucleare senza una ricerca e sviluppo di fonti energetiche alternative e rinnovabili che non sia espressione di un altro modo di fare business.

E tuttavia siamo dell’idea che se le leggi in questione dovessero rimanere in vigore, significherebbero un ulteriore pesante colpo a quelle stesse lotte autorganizzate che attraversano tutto il territorio italiano costituendo un’autentica linfa vitale per il movimento anarchico, ed alle loro rivendicazioni che direttamente riguardano i temi in questione.

Non sarà certo andando a votare domenica e lunedì che affermeremo una via di protagonismo e azione diretta come quella che più autenticamente cerchiamo. Ed anzi, sappiamo che spesso gli strumenti partecipativi possono avere l’effetto boomerang di restituire fiducia negli organismi democratici e liberali proprio quando i loro vertici si allontanano dalla base, rivelando le contraddizioni latenti del sistema.

Ma di fronte al continuo ed indiscriminato attacco alla dignità ed alla libertà delle persone da parte delle istituzioni governative e padronali di questo Paese, riteniamo necessario e doveroso non lasciare niente di intentato, neanche il 12 ed il 13 prossimi.

Su questa base invitiamo tutti i lavoratori e le lavoratrici, giovani e disoccupati, studenti e studentesse, insieme a tutte le realtà e i singoli individui dell’universo libertario, ad andare e votare quattro SI’ al prossimo referendum, per raggiungere il quorum necessario e vedere abrogate tutte e quattro le leggi sottoposte a valutazione popolare.

Ma invitiamo a farlo con la volontà ed il bisogno di iniziare nuovi processi di lotta diffusi che sappiano andare oltre le giornate di domenica e lunedì, e le logiche ad esse soggiacenti.

 

CUSA

PUBBLICATO ANCHE SU A-RIVISTA ANARCHICA

Pubblicato in posizioni | Commenti disabilitati su 12 e 13 giugno: 4 SI’ ma per andare oltre le logiche della delega (già pubblicato lo 09/06/11 su cusa.splinder.com)

Fuga e pestaggio al CIE di Bologna (già pubblicato il 25/04/11 su cusa.splinder.com)

Il 22 aprile scorso alle 03:00 della notte, nel CIE di Bologna, 22 immigrati tunisini hanno tentato la fuga scavalcando mura di recinsione e fili spinati. In 15 ce l’hanno fatta, mentre altri 7 sono stati bloccati dalla polizia.

Tutti e 7 sono stati pestati a sangue e portati in questura. La loro sorte è tuttora ignota.

La persona fonte di questa informazione è detenuta nel CIE stesso.

Ancora una volta siamo costretti a denunciare la bestialità delle istituzioni totali e dei lager democratici che passano sotto il nome di Centri di Identificazione ed Espulsione. Ancora una volta ribadiamo la nostra piena solidarietà attiva a tutti/e gli/le immigrati/e vittime dell’internamento e della repressione da parte dello Stato italiano, e chiediamo la piena libertà di circolazione e di vita per tutti/e loro, in Italia come su ogni altro territorio.

Sappiamo bene infatti che un fenomeno come quello accaduto venerdì, insieme all’intensificarsi del giro di vite nei confronti degli immigrati nel nostro Paese, si inserisce entro una strategia repressiva più complessiva che colpisce dalle rivolte in Nord Africa fino a quelle nelle capitali europee. Che va dall’ennesima guerra imperialista travestita da sostegno a una causa popolare, come sta avvenendo in Libia, fino all’agonia senza fine dei territori palestinesi, ogni giorno ancora martoriati dalla violenza di Stato isreliana.

Nessuno/a sarà mai un/a nostro/a nemico/a solo perché ha scelto di vivere e lavorare dove lo facciamo anche noi, indipendentemente dal luogo in cui è nato/a, dalla cultura, dal colore della pelle.

Auguriamo ai 15 che ce l’hanno fatta di poter trovare veramente una vita libera e migliore al di fuori di quelle mura. E ai 7 che sono stati fermati e picchiati, la miglior rivalsa in odor di giustizia.

Nostra patria è il mondo intero, notra legge è la libertà.

CUSA

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Un vincitore.. (già pubblicato il 21/04/11 su cusa.splinder.com)

Assassinato. Hanno assassinato Vittorio Arrigoni. Non si capisce ancora chi sia stato: il  Mossad, qualche gruppo dell’ultraradicalismo islamico o (ex)componenti di Hamas. O chissà chi altro. Ancora non è chiaro, e forse mai lo sarà. L’importante è trovare dei colpevoli da dare in pasto alla sete di giustizia (che spesso diventa vendetta). Come se questo potesse riportare in vita Vik, rimuovere le cause che hanno portato alla sua uccisione..
Che rabbia cazzo.                                                      Nel nodo gordiano che lega la lotta per il potere, i biechi interessi particolaristici di gruppi politici e la truce violenza quotidiana, Vittorio era nel punto sbagliato al momento sbagliato. Del resto lui aveva deciso di esserci sempre e comunque, per manifestare la sofferenza del popolo palestinese e l’ingiustizia che da decenni affligge il martoriato territorio della Striscia di Gaza. Lui che senza mezzi termini denunciava dal suo blog le nefandezze di un ambiente infame, che voleva a tutti i costi rivoltare come un calzino. Parteggiava Vittorio, sì. Stava con i più deboli, con i poveri, i senzasperanza. E poco tempo fa aveva sottoscritto l’appello dei Gaza youth Breaks Out. Un inno alla rivolta. Per una vita diversa. Migliore.

Non lo consideriamo un eroe. Questa parola non ci piace, rende quasi irraggiungibili le sue nobili gesta. Invece per noi Vittorio è un esempio, un simbolo da cui trarre quotidianamente energia, rabbia, sogni. Una persona con due palle così, coerente e stoica. Che non scorderemo. 

Vik è stato assassinato. Ma la sua Utopia no. 

Ciao Vittorio. Un abbraccio.

CUSA

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“Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare.”

Pubblicato in attualità, posizioni | Commenti disabilitati su Un vincitore.. (già pubblicato il 21/04/11 su cusa.splinder.com)

Sintesi e considerazioni libere sull’opera “Anarchia come organizzazione” di Colin Ward (già pubblicato il 19/03/11 su cusa.splinder.com)

Ciao a tutt*

propongo agli interessati un brevissimo articolo personale in merito al libro “Anarchia come organizzazione” di Colin Ward. L’anarchico pragmatista britannico morto pochi mesi fa. Lo scritto ha un certo “taglio”, poiché era stato pensato per una breve relazione da presentare in un corso universitario.

Si tratta cioè di una sintesi del libro corredata da qualche considerazione personale.

Ad ogni modo, consiglio la lettura per intero dell’opera di Ward, che è veramente interessante.
Linguaggio semplice e chiaro, con prospettive e idee di rinnovamento belle e radicali.

Ecco qui il manoscritto, per chi ha la forza e voglia di inoltrarcisi dentro.

“”

Per comprendere appieno il significato più profondo di questo testo, è doverosa una breve precisazione. Sia di carattere storiografico sia in merito al pensiero anarchico in generale. Anarchia come organizzazione  infatti, è sì un classico del pensiero anarchico e libertario, ma è stato scritto nel 1973 da un autore che rappresenta solo una delle possibili declinazioni teoriche e pratiche dell’anarchismo inteso come filosofia sociale, ancor prima che come dottrina politica. E’ quindi necessario contestualizzarlo ed essere consapevoli della parzialità di quest’ opera. Ward fa parte di quel filone definibile come pragmatista. Il suo obiettivo preciso cioè, non è tanto quello di analizzare i principi e le idee anarchiche in un senso metafisico o filosofico, ma piuttosto di dimostrare come esse vivano nel quotidiano, nella concretezza del reale, sebbene sepolte da strutture politico-sociali e comportamentali che impediscono di capirne l’esistenza ed efficacia.
Le riflessioni dell’autore non a caso, attraversano ambiti molto eterogenei e differenti l’uno dall’altro. Dall’urbanistica, al sistema educativo, passando per le carceri e la famiglia, fino alle dinamiche di lotta dei lavoratori, sono molti i momenti-spazi in cui egli ravvisa la presenza dei principi e concetti tipici del pensiero anarchico e libertario: decentramento, federalismo, cooperazione, autogestione e antiautoritarismo in primis.

In termini di analisi dei contenuti, il libro si può dunque sommariamente suddividere così: A) Proposte per un’organizzazione sociale antiautoritaria e antigerarchica, in cui libertà ed eguaglianza abbiano un ruolo centrale; B) Esempi concreti dell’esistenza di dinamiche, principi e azioni anarchiche nella storia e nella società; C) Funzione,efficacia e sviluppo di queste idee.

Tra i vari argomenti affrontati nell’opera, un ruolo centrale spetta alla critica dello Stato, che è considerato il massimo esempio di autoritarismo e violenza. Esso cioè, attraverso le sue istituzioni e poteri, come ad esempio la scuola, le carceri e le forze armate, impone dall’alto verso il basso le decisioni, limitando o annullando la libertà delle persone. E ciò avviene sulla base della delega di potere che va dall’individuo allo stato. Un trasferimento di potere, questo, che si trasforma successivamente in legittimità e possibilità di coazione ai danni dei cittadini,  e che ha nella guerra un esempio lampante. E’dunque osteggiata la concezione statalista, impregnata di imposizioni e gerarchie che l’anarchismo si propone di distruggere. L’organizzazione sociale per gli anarchici, può e deve dunque avvenire senza l’intervento di autorità alcuna. In tutti gli ambiti della vita umana. Deve essere organizzata e gestita dagli individui attraverso la libera associazione e l’azione diretta. Si ha quindi un insieme di proposte che convergono verso modelli sociali differenti da quelli statali-centralistici, che abbiano cioè un maggiore grado di libertà ed uguaglianza. E che, soprattutto, già operano nella società. In questo passaggio da una società piramidale ad una reticolare, non si può che seguire il principio federativo. Che fa del decentramento e della diversità intesa come pluralismo, la sua forza.


Le immagini usate dall’autore per rendere l’idea di questo tipo di futura società orizzontale e antiautoritaria, è quella dei circuiti neuronali e cibernetici, in cui non esiste un vero e proprio centro, ma tanti piccoli snodi che si sostengono vicendevolmente. Ward fa poi l’esempio delle reti ferroviarie svizzere e dei servizi postali internazionali, in cui i soggetti stabiliscono una sorta di contratto sociale esente d’autorità, che semplicemente coordina il funzionamento di questi servizi, più che governarlo. L’idea è semplice: le persone si uniscono sulla base dei propri interessi e volontà, creando gruppi di varia natura: cooperative di lavoratori, associazioni di cura e assistenza, e quant’altro, e si disuniscono quando l’interesse viene meno. Così sarebbe nata, secondo quanto emerge dal libro, anche l’assistenza sociale in Inghilterra: i poveri si autotassavano per raggiungere un obiettivo comune, quello di garantire a tutti la sicurezza di potersi curare in caso di bisogno.

Un sistema organizzativo che aveva raggiunto un ordine naturale che nessun’autorità esterna avrebbe saputo generare (teoria dell’ordine spontaneo). Proprio perché auto diretto e gestito autonomamente dai soggetti interessati.
Ma poi la situazione mutò negli anni successivi. In Inghilterra e altrove, l’assistenza sociale e molti altri servizi che prima erano  autogestiti volontariamente, vennero istituzionalizzati e poi nazionalizzati. E anche in merito alle struttura delle istituzioni, oltre che della logica che le incarna, lo sguardo anarchico è estremamente critico. Perché è sorto un dubbio atroce: si è davvero sicuri che questi organi sociali contribuiscano a risolvere i problemi per cui sono nati, o piuttosto li perpetuano? Gli anarchici propendono per questa seconda ipotesi. Il testo fa numerosi esempi, ma il più calzante per spiegare la (presunta) malsana logica operativa delle istituzioni, pare essere quello del sistema carcerario. Ward, riprendendo altri autori tra cui Kropotkin, sostiene che invece di aiutare a risolvere il fenomeno della criminalità e dei reati, il carcere non faccia che peggiorare la condizione di chi ci entra. In essa, non c’è redenzione per l’uomo, ma solo punizione. I carcerati introiettano l’idea per cui essi sono così e mai potranno cambiare. Nelle istituzioni dunque, il grado di gerarchia e violenza derivante dall’autorità, andrebbe di pari passo con l’interesse a conservare lo status quo che da ad esse potere. Ciò avviene anche in merito al sistema educativo, seppur con alcune differenze. Per l’autore, il prototipo della scuola esisteva ben prima che lo stato stabilisse l’educazione nazionale obbligatoria. Ma l’aspetto più interessante nella lotta per l’educazione popolare, sospesa tra prospettive centraliste-stataliste e libertarie-decentraliste, è la radicalità della proposta anarchica. Di cui il motto “descolarizzazione” è la sintesi estrema. Gli anarchici vogliono che le scuole e le università diventino accademie popolari gratuite, in cui tutti insegnino a tutti, in cui gli individui decidano ciò di cui parlare, basate sulla partecipazione volontaria. Anche se certi pensatori, tra cui Godwin, si spingono addirittura più in là, con tesi che sostengono un’ “istruzione incidentale”: un apprendimento extrascolastico casuale, ottenuto attraverso il lavoro, il gioco, e altre situazioni interessanti. La conoscenza insomma, come azione performativa autogestita e libera.

Affrontiamo ora uno delle questioni centrali del testo: il lavoro. “Senza padroni” è il famoso slogan che racchiude in sé i concetti teorici portanti del pensiero anarchico in merito all’organizzazione del lavoro. Ma cosa si cela dietro queste due parole? Uno degli elementi politici che emerge è indubbiamente quello dell’autogestione. Sia dei rapporti produttivi sia della proprietà in sé. L’intento storico del movimento anarchico è stato quello di riuscire a prendere il controllo delle fabbriche (e oggi si potrebbe estendere agli altri luoghi di produzione, sia essa anche di tipo intellettuale/di servizi) per renderlo collettivo. Fare in modo cioè che i lavoratori lo gestissero autonomamente, per evitare tutti quei soprusi e quelle ingiustizie tipici dei sistemi lavorativi improntati su modelli gerarchici e capitalistici. Spesso questo sogno non si avverò. Tuttavia Ward evidenzia come, per rispondere ad essi, furono create cooperative e nuove modalità collettiviste di organizzazione del lavoro che hanno saputo proporre valide alternative. Ad esempio la pratica del “sistema a squadre” , che concentra il controllo sulle merci e non sulle persone. Essa permetteva agli operai di una fabbrica britannica di autogestirsi quasi completamente, di avere un’ottima produttività e alti salari, e di mettersi così al riparo dallo sfruttamento operato ai loro danni dai dirigenti. E sistemi simili, in cui all’autogestione si collegano processi di decisione partecipata e collaborazione, rispondono molto di più di altri alle aspettative degli anarchici in merito al lavoro. Che deve inoltre assumere un valore educativo e di responsabilizzazione per gli operai, stimolando la loro creatività, con il fine di evitare una pericolosa “condizione subumana di deresponsabilizzazione intellettuale”[1].

Ma è senza dubbio nel modo di intendere ed interpretare la legge, la criminalità e la giustizia, che il pensiero anarchico e libertario può apparire ingiustamente infantile o semplicistico. La legge appare ad ogni anarchico come l’antipodo della libertà, in quanto è espressione dello stato e della sua prevaricazione sull’individuo e la popolazione. Per questo motivo viene rifiutata il più possibile come mezzo di risoluzione dei conflitti e di gestione della vita pubblica. C’è insomma, la forte volontà di opporsi ad ogni entità che ritenga di poter giudicare e reprimere attraverso la violenza, eventuali comportamenti criminali.

Come organizzare dunque la società senza l’ausilio di autorità poliziesche e leggi? Attraverso la gestione sociale dell’ordine. Una prospettiva ideale per cui le persone compartecipano tutte insieme alla gestione dell’ordine pubblico e all’individuazione e punizione di comportamenti ritenuti antisociali. In questo secondo caso, attraverso una serie numerosa di meccanismi particolari. Ad esempio, affidando il controllo sociale del territorio a chi ci vive, oppure utilizzando la disapprovazione della comunità nei confronti di chi sbaglia, come fonte di inibizione di azioni criminali. Sebbene queste e altre pratiche simili possono talvolta apparire ed essere potenzialmente deboli, gli anarchici le ritengono ben migliori rispetto a quelle autoritarie. Anche in una logica di responsabilizzazione della comunità nei confronti di sé stessa. Infatti, se la popolazione non delega la sua sicurezza a istituzioni gerarchiche, deve necessariamente farsene carico. Ed inizia così quel percorso di crescita di partecipazione collettiva che è fondante nei modelli di gestione sociale antiautoritaria della giustizia e dell’ordine pubblico.

Una delle prospettive più rosee a cui si potrebbe giungere, seguendo il concetto espresso poc’anzi, è quella che Ward riprende da Richard Sennet: la teoria della conflittualità nonviolenta. Paradigma in cui all’alta intensità del mutamento sociale che scaturisce da ogni conflitto (sia esso interpersonale piuttosto che comunitario), corrisponde un ancor più alto grado di responsabilizzazione e consapevolezza delle persone che vi partecipano e lo autogestiscono. Senza interferente di alcuna autorità. Si svilupperebbe così una società in grado di fare a meno di strumenti e logiche repressive- liberticide.

Per ovvie ragioni di spazio non ho potuto approfondire nel dettaglio le tematiche e gli esempi presentati nel libro, cercando di scegliere quelli che mi sembravano più pregnanti. In questa personale rielaborazione organica del testo,  spero comunque di aver messo in luce l’intento dell’autore: dimostrare che l’anarchia è una prospettiva di organizzazione sociale, politica ed economica radicalmente alternativa e concretamente presente nelle pieghe della società, non un’ utopia romantica irrealizzabile. Preso per vero ciò, dovremo anche tornare a parlare di anarchia e anarchismo senza pregiudizi o stigma di sorta, confutando quegli stereotipi negativi che spesso gli vengono associati. Non solo dall’opinione pubblica, ma anche dal mondo accademico.
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IL PICCOLO PRINCIPE

[1]Colin Ward, Anarchia come organizzazione, Milano, Eleuthera 2010, p.142.
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